mercoledì 21 ottobre 2009

Diario postumo II

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II


È difficile cavarsela con gli errori dell’epoca: se ci si oppone ad essi,
si è soli; se ci si lascia irretire, non se ne cava né onore né gioia.

Goethe


Che appropriata citazione ai tempi le parole che il «beato di Dio Ticone» – come si legge nelle pagine finali del Viaggiatore incantato – udì da San Paolo, quelle apostoliche parole che annunciavano: «Allorché tutti diranno pace e sicurezza, inopinata cadrà su loro la rovina universale». (18.VI.87)

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Penso, poiché manca o è assai rara, a una saggistica necessaria, inverata, che vuol dire fatta lavorandosi cervello e cuore, per trarne linguaggio e pensiero vivo, come il poeta trae da sé e lavora la sua vibrante materia fantastica. E così mosso, il critico, da una passione di verità, come il poeta di bellezza (o come quando è poeta, poiché quasi sempre una tale saggistica è opera di poeti), estrae e lavora la propria linguistica materia viva – in cui il pensiero risplende e batte con accento di verità, a differenza della tanta orripilante e vana saggistica odierna che, in quella opaca congerie gergale in cui è scritta (ideologica, psicoanalitica, semiologica...), non è altro che lingua morta e pensiero morto. (3.VI.88)

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Hanno ragione gli scienziati che al convegno dell’Unesco, a Venezia, hanno quasi concordemente dichiarato che il mondo è prossimo alla catastrofe ma che la scienza può salvarlo. Non meno concordemente essi hanno chiesto che il mondo riconosca alla scienza questa facoltà e le affidi le risorse necessarie all’opera di salvezza.
È una giusta petizione che si rifà a quello che in fisica si chiama, credo, principio di accelerazione – e che non confonderemo con quello che in morale andrebbe sotto il nome di volontà di espiazione. È vero, la scienza può salvare il mondo, se porterà in un tempo più breve alla definitiva catastrofe questo mondo, fondato sulla violenza distruttrice della scienza e della tecnologia. (10.VII.89)

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Approssimazioni. È forse questa interiore alterazione della distanza, provocata da sempre più rapidi spostamenti nello spazio, che si traduce in parificazione o azzeramento del tempo: quel senso di indifferenziazione temporale, per cui tutti i secoli tornano a vivere in una spaesata contemporaneità, e che corrisponde nelle arti a quella indifferenziazione o compresenza degli stili così simile, ma con tratti che non hanno precedenti (per estensione, celerità...), al vortice manieristico che altre età hanno conosciuto.
Questa artificiosa dislocazione, determinata dalla tecnica e dalla velocità, all’originaria radicale irrealtà del reale ne ha aggiunta una ulteriore – una irrealtà geografica: quelle petulanti figurette che trascorrono confusamente per le vie di Firenze o di Madras, lì proiettate da Tenerife o da Modena...
Tutto arriva così a collocarsi in una contemporaneità approssimata – che è, di fatto, una contiguità velocemente percorribile, approssimabile –, che resta appunto soltanto prossima, producendo un effetto di totalità irrimediabilmente approssimativo. (18.IX.89)

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Blasoni dell’anima contemporanea. La sicurezza. È la trepida anima contemporanea che, nel mondo dell’apparenza e della fugacità, vuole la sicurezza – e naturalmente, l’assicurazione, ogni forma di assicurazione – purché possa lì per lì distoglierla dalla sicurezza della morte.
Il bene. Chi lo ha mai visto? Non può essere che una cosa per pochi. I beni invece sono qui, visibili, offerti a tutti... Che cos’è mai la coscienza? Una voce tediosa che ti segue dappertutto. Meglio un telefonino.
La grande madre-chiacchiera. Senza questo garrulo dar di fiato, nei salotti e nei mercati, arruffone e opportunista, sentimentale, bugiardo: esisterebbero i giornali, i dibattiti parlamentari, i talk show, i convegni? Una bava opaca che ricopre tutto, invischia ogni possibilità di pensiero, di autentica creazione: è la grande madre-chiacchiera, la mascherata isterica della realtà. (4.XI.93)

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Avviso agli orgogliosi. Coltivate l’ordinario. Una bellezza eccessiva spaventa o stanca. Non pretendete energia e attenzione da una specie che trova nei giornali del mattino e nelle serate televisive i suoi conforti. Offrite qualche lusingatrice volgarità; e soprattutto – mostrandovi sensibili a questo sfavillante sfascio – fateli ridere: chi va verso la distruzione ama essere distratto; e con qualche sconcezza, metteteli a loro agio: che ognuno si senta come nel proprio letto.
Se invece non saprete, ostinati e avari, rinunciare a quei futili splendori in cui ponete il vostro onore e il vostro orgoglio, non inveite contro gli uomini i tempi la fortuna; incapaci di umiltà, accettate l’umiliazione – e rassegnatevi all’inedia. (... XI.93)

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Ecco un comico controsenso: la vita irriflessa, questa aspirazione edenica delle civiltà speculari, posta al centro della riflessione. A forza di giacere tra gli specchi, vien voglia di tirarsi su, inseguire un qualche atletismo biologico o eroico... o almeno, ah sgranchirsi un po’ gli istinti! Non può riferirsi che a questo l’espressione «arrampicarsi sugli specchi». (21.III.94)

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Discendenze. Non sono pensatori originali – non hanno né la fede dei grandi discepoli, né l’infedeltà che fa i nuovi maestri. Le loro pagine sono, al meglio, opere d’arredamento. C’è chi riarreda casa Benjamin, chi casa Heidegger, e intanto mettono su casa loro con pezzi trafugati e copie in stile. Mancando di autorevolezza padronale, ostentano l’albagia della servitù: camerieri glossatori e maggiordomi ecolalici. (8.IX.95)

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La furbizia ammicca sempre, anche alla propria scomparsa: la sua ultima risorsa è fare l’elogio della serietà. (11.XII.95)

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Tutti corrono sulle strade
per fare il loro lavoro:
o Italia laboriosa,
come crescono le tue entrate!

I fabbricanti di motorini
fanno il loro lavoro:
moltiplicatevi cadaverini
che si moltiplica il tesoro;

a Torino come a Medellin
tutti fanno il loro lavoro:
avvoltoi e agnelli,
ognuno il suo ruolo;

chi fabbrica automobili
e chi sirene d’allarme,
chi ricambia i pezzi rotti
e chi raccoglie le salme;

chi alleva e chi macella
la carne che non ha parola
e chi ne concia la pelle:
il paese lavora;

le agenzie di pubblicità
fanno tutte il loro lavoro:
danno fango alla città
e ne ricavano oro;

tutti fanno il loro lavoro:
quanti beni, c’è ogni conforto!
schizza in cielo come il petrolio
il prodotto interno lordo;

e oh, gli assessori al traffico
non fanno il loro lavoro?
O città! i tuoi profumi, il coro
solenne dei clacson...

Forse che a Auschwitz
non facevano il loro lavoro?
Come fumavano le ciminiere
e quanta pelle e oro

di denti tutte le sere!

(16.V.98)

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Come un flusso di energia inquinante il denaro dell’industria, elettrizzato in pubblicità, alimenta e muove schiere di larve catodiche... i colorati ologrammi ridenti cantanti ancheggianti smorfieggianti nulladicenti che idioteggiano nella loro naturalità professionale del «come tutti», replicanti del banale, campioni dell’ovvio e del trucido, in cui si specchia e si bea un paese mentalmente raso al suolo a colpi di spot e fiction, quiz e varietà. (al 17.VII.01)

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Il principio per cui le cose avvengono è quello del cedimento. Far cedere con le proprie pressioni o cedere alle pressioni altrui: è tutto qui il moto del mondo, il doppio movimento che fa accadere le cose.
E questo dà un senso surrettizio alla vita, evita l’obbligo doloroso del giudizio e della scelta. È la parodia, in forma di coercizione, del dovere, l’imperativo categorico rovesciato di segno – insomma, la corruzione...
L’opera è irresistibile. (28.V.02)

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Leve poetiche. (Prova per una riscrittura avanguardistica delle storie letterarie). John Keats lascia il servizio a Roma il 23 febbraio 1821. Un felice colpo d’occhio strategico, e Charles Baudelaire viene iscritto sulle liste a Parigi il 9 aprile di quello stesso anno. Mentre Edgar Poe, dodicenne, avrebbe presto colmato il vuoto iniziando il suo turno.
Sul campo intanto restavano ancora, per sei anni Ugo Foscolo, che sarà sciolto dalla ferma a Londra il 10 settembre 1827, e per altri dieci anni Giacomo Leopardi, congedato a Napoli il 14 giugno 1837. (14.VIII.05)

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Non hanno nessun senso del mistero terribile e ridicolo che è la (loro) vita, fatti come sono di una materia ignota – questa cosa familiare e spaventosa: la carne! – che si guasta e altera e corrompe, schiaffata in mezzo ad altra materia altrettanto ignota, anche se laboriosamente classificata: vegetale, minerale... un’illusoria massa di atomi assembrati da un’energia primordiale e sempre sul punto di disgregarsi nelle tenebre di un agglomerato immenso, inesplorato; nessun senso del vuoto tenebroso che li circonda – stanno così, «al sole», insulsi bagnanti che un’ondata sorprenderà travolgendoli... E guai alla letteratura che glielo ricorda, le preferiranno sempre un’arte da spiaggia. (al 18.XII.05)

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L’ora legale: un’ora in più guadagnata alla causa della distruzione.

ora e nell’ora nostra letale
tutti alle tenebre giù a ruzzolare

(al 25.III.06)

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I poeti di piccola cifra, o «con un’attitudine troppo definita«, come scriveva Carnevali di alcuni poeti italiani del primo Novecento, essendo spesso poeti suggestivi, inducono più facilmente all’imitazione, sono più facilmente imitabili – e di fatto molto imitati.
Un pullulare di minime maniere ne è l’effetto, un diffuso epigonismo che nel suo fiacco riflesso rispecchia e illumina i limiti del modello. (28.VIII.06)

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Marinetti ha giocato con le parole e ha fatto scena; Campana ha messo in gioco se stesso e ha fatto poesia. Uno è finito accademico, l’altro in manicomio. Tertium? (... VIII.07)

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Il vero analfabetismo non è quello di chi non sa leggere né scrivere – che è stato cultura della parola e non della lettera, con tutta la ricchezza affabulatoria della tradizione orale; il vero analfabetismo è quello degli italiani che oggi leggono Dan Brown e Ken Follet e Paulo Coelho... e, rimpatriando, trovano lo stile di Alessandro Baricco sublime (Blog Book Crossing), che lo Pseudo Dionigi, o chi fosse, mai li perdoni...
Persi in queste letture d’autobus e da sala d’aspetto, ancora una volta estranei alla loro lingua e alla loro tradizione letteraria. (al 20.IX.07)

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Il paese dove «il sì suona» è ora il paese dove l’«assolutamente sì» rumoreggia, pareggiato dall’«assolutamente no», proprio dei bugiardi che non sanno dire né sì né no, – e lo stuolo appresso degli impagabili pappagalli. (16.II.08)


Diario postumo II è uscito sulla rivista «Pagine», XVIII, 55, aprile-giugno 2008.

1 commento:

alessandro ha detto...

Diario postumo:
Dei tuoi scritti dirò che hai la potenza caustica di un Belli, hai una forza, un modo di chiudere, di serrare il discorso che assomiglia a uno schiaffo, netto, che lascia la scottatura, 'na botta, che però al riceverla quasi sembra una carezza... una puntura? un morso di vipera... Ora ti vedo come spadaccino piuttosto, ecco! Don Chisciotte, ché forse ciò che di popolare e insieme raffinato (barbaro e aristocratico) (il Belli) trapela da ogni tua schermaglia, è un Sancho Panza idiota perché non si è fatto "idiotizzare", quello che ti salva dal volatizzarti in quanto Cavaliere Errante nel silenzio di un tramonto o di un'alba (che non si possono applaudire!), eppure a questo stesso silenzio, ogni volta - prima ed ultima, destinandoti... La televisione, il progresso, tutto è postumo, è l'Effimero che si scrolla di dosso eternamente come la cenere di un grosso sigaro, quello che ha tra le vecchie dita il Signor Croche: "mi sembra del resto che gli aneddoti o le manie di cui si compone la vita di un uomo debbano essere "postume"" (Debussy)... Di loro (questo infernaccio) non resterà che cenere... tu invece ti sei voluto versare in anticipo alla morte, perciò vincendola.


Devo aggiungere: ho inteso il Belli nella sua accezione popolare-raffinata, nel senso che di popolare c'è la materia, di raffinato la forma... ora, questo innesto ("oh che felice innesto" Rossini) ai tempi odierni sarebbe da collocare nel "Pop", nel post-moderno... no, in te non c'è quella fede (o malafede?), anche eretica, nel Simulacro (ai Dada, dunque, la Santità)... la tua Immagine pur essendo Astorica, e Mitica, in quanto indicatrice dello stallo temporale (o impasse) di cui l'Occidente è succubo e incubo (ma già da Debussy?), tende a sfuocarsi in un' "impressione", e come tale, soltanto come impressione (da qui il tuo impressionismo, della ragione più che dei sensi) stratifica internamente la Storia Intera (a livello formale-letterario, certo!). Sarebbe da raccogliere tutti i tuoi scritti in un unico libro, un'unica sinfonia, l'ennesima incompiuta...