domenica 29 aprile 2012

Gatteggiamenti


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«O davvero cerilo fossi... »; «è simile il poeta al principe delle nubi... »: desiderio e identificazione, anche verso il basso, «quel rospo sono io»... Alcmane, Baudelaire, Corbière... I poeti non sono specisti, forse perché si considerano, o sono considerati, una specie a parte, una razza inferiore... spesso e volentieri anche loro tenuti alla corda o portati al macello.
Nel libro di Scienze Naturali, libro indimenticabilmente istruttivo dei remoti anni ginnasiali, la descrizione adeguata, arguta, e quasi affettuosa, dei vari rappresentanti delle specie si chiudeva sempre con notazioni di umana cura: la pelle serve a questo, le corna a quello, con gli intestini si fa quest’altro, con le ossa... La zoologia come merceologia: scaffali di colle, oli, lane... ciò che fu vivo fatto emporio.
Quel lessico franco e miserabile forse non ha più corso, resta però la concezione che lo generava, appena un po’ nascosta, e la prassi innascondibile: randellatori, arpionatori, sperimentatori, hanno tutti mano libera – stato chiesa e scienza sono dalla loro.

Negli incendi, nelle inondazioni, quei disastri detti giustamente naturali perché l’uomo, che ne è per lo più responsabile, è parte della natura, parte destruens, si contano i morti: 5, 30, 200... Fosse pure un solo morto, unico tra miliardi di vivi di una specie che spreca e così folta, affollante, l’annuncio è luttuoso, la perdita, grave. E i cani, i gatti, gli uccelli, eccetera? Neanche una parola. Suppellettili, o pezzi di macelleria.
I poeti li contano, li cantano, li nominano (ma «i poeti sono matti», riferiva Saba), e traducono alcuni esemplari dalla natura alla storia – la nostra fittizia immortalità –; li fanno entrare e restare, insigniti di nomi umani, nelle biografie e nelle storie letterarie: il gatto Jeoffry di Christopher Smart, folle conclamato, la gatta Caterina di Poe, il gatto Alvaro di Elsa Morante... E cani, canarini, cavalli, con o senza nome: così sappiamo che sono state presenze care, i versi ci dicono che furono amati – per quel che può valere, come nostro conforto o riscatto, qualche raro amore speciale, di fronte a tutte le incalcolabili vittime sconosciute.
Il nostro amore è tinto di rimorso, visitato dai fantasmi della cattiva coscienza, poiché dimoriamo sul confine, fra i trucidati e i protetti; la facciamo da dei e da padroni, ma non possiamo nulla contro la malattia e la morte: siamo corpi, come loro, i nostri pari sottomessi.


Ah, le illuminazioni della scienza! – dopo squartamenti, sevizie chimiche e altre geniali torture sperimentali: oh, gli animali sognano; oh, gli animali comunicano... Bastava chiedere a qualche uomo con gatta o donna con cane abbastanza amorosi e attenti ai comportamenti dei loro familiari, e la vera verità sperimentale sarebbe venuta fuori: era lì, sotto occhi bene aperti. Altro che se sognano, impudentemente, fuori delle procedure di laboratorio; come da sempre comunicano, con un’oratoria misurata o risentita, secondo le circostanze, e silenzi eloquenti; pensano, naturalmente, e leggono il pensiero, anche senza il permesso degli etologi; si lamentano, gridano, o muti incupiscono, poiché in loro, come in tutti i viventi, o mortali, è il senso del pericolo e della morte. Diciamo pure: la cognizione della morte. Ma questa sarà una prossima stupita scoperta. Per ora, una comoda menzogna li fa morire ignari.