mercoledì 21 ottobre 2009

Diario postumo II

*



II


È difficile cavarsela con gli errori dell’epoca: se ci si oppone ad essi,
si è soli; se ci si lascia irretire, non se ne cava né onore né gioia.

Goethe


Che appropriata citazione ai tempi le parole che il «beato di Dio Ticone» – come si legge nelle pagine finali del Viaggiatore incantato – udì da San Paolo, quelle apostoliche parole che annunciavano: «Allorché tutti diranno pace e sicurezza, inopinata cadrà su loro la rovina universale». (18.VI.87)

*

Penso, poiché manca o è assai rara, a una saggistica necessaria, inverata, che vuol dire fatta lavorandosi cervello e cuore, per trarne linguaggio e pensiero vivo, come il poeta trae da sé e lavora la sua vibrante materia fantastica. E così mosso, il critico, da una passione di verità, come il poeta di bellezza (o come quando è poeta, poiché quasi sempre una tale saggistica è opera di poeti), estrae e lavora la propria linguistica materia viva – in cui il pensiero risplende e batte con accento di verità, a differenza della tanta orripilante e vana saggistica odierna che, in quella opaca congerie gergale in cui è scritta (ideologica, psicoanalitica, semiologica...), non è altro che lingua morta e pensiero morto. (3.VI.88)

*

Hanno ragione gli scienziati che al convegno dell’Unesco, a Venezia, hanno quasi concordemente dichiarato che il mondo è prossimo alla catastrofe ma che la scienza può salvarlo. Non meno concordemente essi hanno chiesto che il mondo riconosca alla scienza questa facoltà e le affidi le risorse necessarie all’opera di salvezza.
È una giusta petizione che si rifà a quello che in fisica si chiama, credo, principio di accelerazione – e che non confonderemo con quello che in morale andrebbe sotto il nome di volontà di espiazione. È vero, la scienza può salvare il mondo, se porterà in un tempo più breve alla definitiva catastrofe questo mondo, fondato sulla violenza distruttrice della scienza e della tecnologia. (10.VII.89)

*

Approssimazioni. È forse questa interiore alterazione della distanza, provocata da sempre più rapidi spostamenti nello spazio, che si traduce in parificazione o azzeramento del tempo: quel senso di indifferenziazione temporale, per cui tutti i secoli tornano a vivere in una spaesata contemporaneità, e che corrisponde nelle arti a quella indifferenziazione o compresenza degli stili così simile, ma con tratti che non hanno precedenti (per estensione, celerità...), al vortice manieristico che altre età hanno conosciuto.
Questa artificiosa dislocazione, determinata dalla tecnica e dalla velocità, all’originaria radicale irrealtà del reale ne ha aggiunta una ulteriore – una irrealtà geografica: quelle petulanti figurette che trascorrono confusamente per le vie di Firenze o di Madras, lì proiettate da Tenerife o da Modena...
Tutto arriva così a collocarsi in una contemporaneità approssimata – che è, di fatto, una contiguità velocemente percorribile, approssimabile –, che resta appunto soltanto prossima, producendo un effetto di totalità irrimediabilmente approssimativo. (18.IX.89)

*

Blasoni dell’anima contemporanea. La sicurezza. È la trepida anima contemporanea che, nel mondo dell’apparenza e della fugacità, vuole la sicurezza – e naturalmente, l’assicurazione, ogni forma di assicurazione – purché possa lì per lì distoglierla dalla sicurezza della morte.
Il bene. Chi lo ha mai visto? Non può essere che una cosa per pochi. I beni invece sono qui, visibili, offerti a tutti... Che cos’è mai la coscienza? Una voce tediosa che ti segue dappertutto. Meglio un telefonino.
La grande madre-chiacchiera. Senza questo garrulo dar di fiato, nei salotti e nei mercati, arruffone e opportunista, sentimentale, bugiardo: esisterebbero i giornali, i dibattiti parlamentari, i talk show, i convegni? Una bava opaca che ricopre tutto, invischia ogni possibilità di pensiero, di autentica creazione: è la grande madre-chiacchiera, la mascherata isterica della realtà. (4.XI.93)

*

Avviso agli orgogliosi. Coltivate l’ordinario. Una bellezza eccessiva spaventa o stanca. Non pretendete energia e attenzione da una specie che trova nei giornali del mattino e nelle serate televisive i suoi conforti. Offrite qualche lusingatrice volgarità; e soprattutto – mostrandovi sensibili a questo sfavillante sfascio – fateli ridere: chi va verso la distruzione ama essere distratto; e con qualche sconcezza, metteteli a loro agio: che ognuno si senta come nel proprio letto.
Se invece non saprete, ostinati e avari, rinunciare a quei futili splendori in cui ponete il vostro onore e il vostro orgoglio, non inveite contro gli uomini i tempi la fortuna; incapaci di umiltà, accettate l’umiliazione – e rassegnatevi all’inedia. (... XI.93)

*

Ecco un comico controsenso: la vita irriflessa, questa aspirazione edenica delle civiltà speculari, posta al centro della riflessione. A forza di giacere tra gli specchi, vien voglia di tirarsi su, inseguire un qualche atletismo biologico o eroico... o almeno, ah sgranchirsi un po’ gli istinti! Non può riferirsi che a questo l’espressione «arrampicarsi sugli specchi». (21.III.94)

*

Discendenze. Non sono pensatori originali – non hanno né la fede dei grandi discepoli, né l’infedeltà che fa i nuovi maestri. Le loro pagine sono, al meglio, opere d’arredamento. C’è chi riarreda casa Benjamin, chi casa Heidegger, e intanto mettono su casa loro con pezzi trafugati e copie in stile. Mancando di autorevolezza padronale, ostentano l’albagia della servitù: camerieri glossatori e maggiordomi ecolalici. (8.IX.95)

*

La furbizia ammicca sempre, anche alla propria scomparsa: la sua ultima risorsa è fare l’elogio della serietà. (11.XII.95)

*

Tutti corrono sulle strade
per fare il loro lavoro:
o Italia laboriosa,
come crescono le tue entrate!

I fabbricanti di motorini
fanno il loro lavoro:
moltiplicatevi cadaverini
che si moltiplica il tesoro;

a Torino come a Medellin
tutti fanno il loro lavoro:
avvoltoi e agnelli,
ognuno il suo ruolo;

chi fabbrica automobili
e chi sirene d’allarme,
chi ricambia i pezzi rotti
e chi raccoglie le salme;

chi alleva e chi macella
la carne che non ha parola
e chi ne concia la pelle:
il paese lavora;

le agenzie di pubblicità
fanno tutte il loro lavoro:
danno fango alla città
e ne ricavano oro;

tutti fanno il loro lavoro:
quanti beni, c’è ogni conforto!
schizza in cielo come il petrolio
il prodotto interno lordo;

e oh, gli assessori al traffico
non fanno il loro lavoro?
O città! i tuoi profumi, il coro
solenne dei clacson...

Forse che a Auschwitz
non facevano il loro lavoro?
Come fumavano le ciminiere
e quanta pelle e oro

di denti tutte le sere!

(16.V.98)

*

Come un flusso di energia inquinante il denaro dell’industria, elettrizzato in pubblicità, alimenta e muove schiere di larve catodiche... i colorati ologrammi ridenti cantanti ancheggianti smorfieggianti nulladicenti che idioteggiano nella loro naturalità professionale del «come tutti», replicanti del banale, campioni dell’ovvio e del trucido, in cui si specchia e si bea un paese mentalmente raso al suolo a colpi di spot e fiction, quiz e varietà. (al 17.VII.01)

*

Il principio per cui le cose avvengono è quello del cedimento. Far cedere con le proprie pressioni o cedere alle pressioni altrui: è tutto qui il moto del mondo, il doppio movimento che fa accadere le cose.
E questo dà un senso surrettizio alla vita, evita l’obbligo doloroso del giudizio e della scelta. È la parodia, in forma di coercizione, del dovere, l’imperativo categorico rovesciato di segno – insomma, la corruzione...
L’opera è irresistibile. (28.V.02)

*

Leve poetiche. (Prova per una riscrittura avanguardistica delle storie letterarie). John Keats lascia il servizio a Roma il 23 febbraio 1821. Un felice colpo d’occhio strategico, e Charles Baudelaire viene iscritto sulle liste a Parigi il 9 aprile di quello stesso anno. Mentre Edgar Poe, dodicenne, avrebbe presto colmato il vuoto iniziando il suo turno.
Sul campo intanto restavano ancora, per sei anni Ugo Foscolo, che sarà sciolto dalla ferma a Londra il 10 settembre 1827, e per altri dieci anni Giacomo Leopardi, congedato a Napoli il 14 giugno 1837. (14.VIII.05)

*

Non hanno nessun senso del mistero terribile e ridicolo che è la (loro) vita, fatti come sono di una materia ignota – questa cosa familiare e spaventosa: la carne! – che si guasta e altera e corrompe, schiaffata in mezzo ad altra materia altrettanto ignota, anche se laboriosamente classificata: vegetale, minerale... un’illusoria massa di atomi assembrati da un’energia primordiale e sempre sul punto di disgregarsi nelle tenebre di un agglomerato immenso, inesplorato; nessun senso del vuoto tenebroso che li circonda – stanno così, «al sole», insulsi bagnanti che un’ondata sorprenderà travolgendoli... E guai alla letteratura che glielo ricorda, le preferiranno sempre un’arte da spiaggia. (al 18.XII.05)

*

L’ora legale: un’ora in più guadagnata alla causa della distruzione.

ora e nell’ora nostra letale
tutti alle tenebre giù a ruzzolare

(al 25.III.06)

*

I poeti di piccola cifra, o «con un’attitudine troppo definita«, come scriveva Carnevali di alcuni poeti italiani del primo Novecento, essendo spesso poeti suggestivi, inducono più facilmente all’imitazione, sono più facilmente imitabili – e di fatto molto imitati.
Un pullulare di minime maniere ne è l’effetto, un diffuso epigonismo che nel suo fiacco riflesso rispecchia e illumina i limiti del modello. (28.VIII.06)

*

Marinetti ha giocato con le parole e ha fatto scena; Campana ha messo in gioco se stesso e ha fatto poesia. Uno è finito accademico, l’altro in manicomio. Tertium? (... VIII.07)

*

Il vero analfabetismo non è quello di chi non sa leggere né scrivere – che è stato cultura della parola e non della lettera, con tutta la ricchezza affabulatoria della tradizione orale; il vero analfabetismo è quello degli italiani che oggi leggono Dan Brown e Ken Follet e Paulo Coelho... e, rimpatriando, trovano lo stile di Alessandro Baricco sublime (Blog Book Crossing), che lo Pseudo Dionigi, o chi fosse, mai li perdoni...
Persi in queste letture d’autobus e da sala d’aspetto, ancora una volta estranei alla loro lingua e alla loro tradizione letteraria. (al 20.IX.07)

*

Il paese dove «il sì suona» è ora il paese dove l’«assolutamente sì» rumoreggia, pareggiato dall’«assolutamente no», proprio dei bugiardi che non sanno dire né sì né no, – e lo stuolo appresso degli impagabili pappagalli. (16.II.08)


Diario postumo II è uscito sulla rivista «Pagine», XVIII, 55, aprile-giugno 2008.

martedì 13 ottobre 2009

Intermezzo. Tre poesie di Poe

*



.
Sonetto – Alla Scienza

Tu sei la vera figlia, Scienza, del decrepito
Tempo, col tuo sguardo che fruga e àltera
tutto. Perché al cuore del poeta ti avventi,
avvoltoio che ha per ali realtà usuali?
Come può amarti o pensare saggia
se hai voluto vietargli di vagare
ricercando tesori nel gemmato cielo,
lui che levava in volo impavide ali?
Non hai tirato Diana giù dal suo carro?
E messa l’amadriade dal bosco
in fuga verso una stella più felice?
Non hai strappato la naiade alle fonti,
l’elfo ai suoi prati e a me il sogno
d’estate all’ombra del tamarindo?


Romanza

La romanza che ama il sonno e il canto,
l’ala raccolta, il capo sonnolento,
nel verde tra le foglie mentre tremano
laggiù nell’ombra fonda d’un lago,
è stata un variopinto pappagallo
per me – un uccello molto familiare –
da lei il mio alfabeto, a balbettare
la mia prima parola ho imparato,
nel bosco solitario rincantucciato,
bambino dall’occhio intento.

Eterni anni di Condor hanno da tempo
fatto così tremare il Cielo stesso
lassù tonando tumultuosi al passaggio,
che ormai mi vieto ogni cura vana
perso a scrutare l’orizzonte inquieto.
E quando un’ora di più calma ala
copre il mio spirito con le sue piume –
che quel solo momento in lira e rime
possa passare, un delitto il cuore
lo sentirebbe – cose proibite!
se non vibrasse insieme a quelle corde.


Imitazione

Orgoglio senza fondo: un mare
oscuro mai sondato – un mistero,
un sogno: così appare
la mia vita iniziale – è vero,
quel sogno era pieno di insonni
sfrenati pensieri d’altri esseri
già vissuti, non visti, invisibili
allo spirito – lasciati li avessi
passare con occhio sognante!
Nessuno in terra erediti
la mia visione; con quei pensieri
come in un sortilegio terrei
la sua anima: poiché quella fulgente
speranza, quell’età
luminosa sono spente
e la mia pace al mondo è persa
passata via con un sospiro: ma
non importa, e tuttavia la perdo
con un pensiero un tempo prediletto.


Questi versi di Edgar Allan Poe, nella traduzione di Gianfranco Palmery, sono usciti nella rivista «Pagine», IX, 22, gennaio-aprile 1998.

domenica 4 ottobre 2009

Diario postumo I

*

Cos'è Diario postumo?
È un archivio di pensieri, moralità, note in margine: riflessioni sui tempi e sui costumi, su poesia e letteratura, verità e errori d'epoca – brani scritti nell'arco di tre decenni e riferibili, in particolare, alla società italiana contemporanea.

Perché Diario postumo?
Perché è postumo ai pensieri o agli eventi che gli hanno dato vita.
Perché chi lo ha scritto è morto e ora non ne è che il curatore.
Perché chi lo ha scritto è ancora vivo, e queste pagine sono del genere che di solito si pubblica dopo la morte.
Perché l’autore si vede morto e sepolto e la sua esistenza e quello che scrive, tutto è postumo...


I

«... voglio mettere una data alla mia collera»
(
variante: «alla mia tristezza»)

Baudelaire



L’idillio del dopoguerra, il bucolico degli anni ’50, è una melassa di poeti elegiaci, profeti retroversi che prendevano lanterne per lucciole, e lanterne erano gli occhi degli italiani che già luccicavano di avidità, di cupidigia, già brillavano di un’unica mira... Basta rivedere certi film di quegli anni, e li scopri accapigliarsi, strepitare, smaniare: una solare corte dei miracoli in fermento.
Non restava che orchestrare quelle smanie, quegli appetiti, far vibrare i loro fragili midolli – collegarli, elettrizzarli, per spingerli alla pantomima collettiva del Gran Miracolo... e i poveri e belli, e buoni, eccoli rivelarsi voraci, distruttori e imbrattatori come i ricchi e cattivi di cui erano e seguitano ad essere le vittime presunte, in verità piuttosto complici ed emuli sempre più agguerriti e smaniosi in una turbolenta, cieca e generale sarabanda. (9.IV.87)

*

L’idea di progresso sembra coincidere radicalmente con un’idea del tempo al futuro. In realtà, il rapporto vero che il progresso ha con il futuro è un rapporto di sottrazione: il progresso sottrae il futuro al presente, non essendo altro che un’accelerazione del presente, la sua consumazione accelerata...
Il progresso è la rinuncia al futuro per un presente progressista.
Che tutti i paesi socialisti arrivino prima o poi al consumismo capitalistico non è né un paradosso né una disdetta, ma l’esito inesorabile, l’unico, che l’idea di progresso consenta.
Non c’è un progresso capitalista e un progresso socialista. Il progresso si fonda univocamente sul consumo accelerato delle scorte e sull’accumulo inarrestato delle scorie. Il suo futuro è il rifiuto.
Al mondo e ai progressisti che affermano di non voler fermare il progresso, il progresso riserva il suo solo, prevedibile pregio: li fermerà. (30.VI.89)

*

Giovane poeta italiano, che non ti rassegni all’abiezione in cui è caduto il tuo paese eppure vedi impietosamente che non c’è salvezza possibile, ripara all’
interno, chiedi asilo poetico: c’è una sola Italia dove vivere – come nella carducciana «isola dei poeti, degli eroi»... Non la penisola del tempo, ma un’isola della mente, una terra di morti, che sono i soli vivi – beata e non beota come quella dei morti-viventi che l’assediano e divorano giorno dopo giorno. Questa sia la tua Italia – l’altra faccia della merdaglia. (al 15.IV.02)

*

La vita vale poco o niente, almeno per come si esprime nei singoli delle specie (ma anche in intere specie...): lo dice la vita stessa, con le sue consustanziali macellerie, su cui tutti ormai hanno buttato un occhio, serviti a domicilio da cronache e documentari. Nei più sventurati vale ancora meno – e dunque perché mai tanto stupore e sdegno per killer e kamikaze? Al di là delle latitudini e dei costumi che li connotano, essi sono un prodotto planetario del tutto organico; natura e cultura, in questo caso: l’incrocio perfetto allevato dalla modernità mercantile e tecnologica. (al 23.V.02)

*

Qui sulla terra, industria delle carni,
macelleria globale, Tagli S.p.A.,
si annuncia un altro giorno di guadagni
e chi ancora non squarta squarterà

e chi non ha incassato incasserà.
Far crescere la pena è un buon affare
poiché la pena è sempre capitale

(al 31.V.02, h. 5,25 a.m.)

*

Comici e confessori mantengono leggera la coscienza agli italiani. Tre pater ave e gloria o una battuta cialtrona di Sordi hanno la stessa funzione: consentono ai «peccatori» di perdonarsi o riconoscersi – e, fatti leggeri dalla penitenza o dalla risata, tornare alle loro cialtronerie e ai loro peccati. (14.II.03)

*

La
ricerca: piccoli faustismi di batteria che si affrontano all’ultimo articolo su «Science». Il resto è inquinamento. (30.IV.03)

*

Le gambucce accavallate, le scarpine firmate pendule, azzimati signorini, con i loro distinguo, ma in gara di sorrisi: due agiate vecchie zitelle che discutono se dare più soldi al giardiniere o al carpentiere – loro dicono: agricoltura o industria.
Le parole passe-partout «sviluppo» e «competitività» risuonano sulle loro boccucce sapute... Sono pensatori di dispensa, soppesano il presente – anzi il passato, perché il pavimento sta crollando, un vento violento scoperchia il tetto, le luci si spengono, ma loro vedono quelle scintillanti del salotto televisivo che li ospita... e vanno avanti con quieta esultanza. Qualche frasetta brillante rubacchiata dai libri come fosse propria, esibizione imparziale di dati di parte, alternanza di aggressione e consentimento esibita per l’avversario, una furba miscela di supponenza e finta modestia («per quel che so», «a quanto mi risulta», «potrei sbagliare», ecc.), e soprattutto, elusione, fumisterie: due della specie
politicus politicus, sottospecie oggidianus, ibrida, mutante, ubiqua, onniloquente, onnipresente, un OTM, Organismo Televisivamente Modificato. (al 9.IX.03)

*

Se non siete già idioti, idiotizzatevi, come tutti: TV, calcio, canzonette, shopping, maldive... In casa di idioti non idiotizzarsi è da idioti. (23.XII.03)

*

La poesia o è un
gadget isomero di quotidiani, in edizioni che puzzano di effimero come la carta e gli inchiostri dei medesimi, o è un bibelot d’antiquariato, una ingiallita reliquia amatoriale da scaffale o da armadietto: in ogni caso esiste solo se e quando risponde a regole di lucro. (... III.04)

*

La letteratura la fanno i solitari, gli eslege, i naufraghi, i fuoriusciti – uno scrittore non può avere altra confraternita –; non la fanno i suonatori di tamburo della tribù, gli imbonitori, gli intrattenitori... Eco del tempo. Non i raccontatori ombelicali, gli autori di elegie anagrafiche: questi stucchevolmente terribili romanzetti puerili annualmente ammanniti a lettori puerili... (26.III.04)

*

Quel che è perduto – quello di cui sentiamo la lancinante mancanza – non è l’umanità, ma la terrestrità: l’umanità è stata ed è sempre
troppo umana, ed è appunto la causa di questa soverchiante perdita di terrestrità. Al di là della prospettive ovvie di disastro e tracollo incombenti, quel che quotidianamente asserisce il trionfo catastrofico, o la superba disfatta, dell’umanità sono le sue voci: i fragori delle macchine e, specularmente, lo stridore delle chiacchiere. I primi coprono e soppiantano ogni altra voce terrestre, come le seconde coprono e soppiantano e storpiano e fanno infima la parola, il verbo.
La terra è invasa da idee-ordigni scagliati fuori da una mente macchinale: scavatrici, caterpillar, martelli pneumatici, arrotapavimenti, seghe elettriche, trapani, tagliaerbe: il lavoro umano non è che macchinale fragore, e il suo riposo chiacchiera macchinale... Impedito l’ascolto di sé, delle altre voci della terra, e del silenzio... La violenza della macchina annienta prima di tutto la voce, l’essenza sonora della terrestrità – distrugge il discorso il canto il silenzio, vanifica gridi e richiami, isola le teste in un rombo pneumatico e dalle bocche umane, macchinette sfrenate, non esce che rumore. (13.IV.04)

*

A chi prende le protesi meccaniche per progresso, e pensa che la specie avanzi solo perché si muove più velocemente, a chi sogna palingenesi
ex machina: è vano, e sbagliato, e troppo facile, parlare di barbarie tecnologica, di stupidità e violenza compresse in congegni e microprocessori; riconosciamo piuttosto in questa umanità di tecnologia avanzata la solita immutabile barbara umanità che non avanza di un passo ma che sta conquistando una involontaria virtù: favorire la propria scomparsa. (al 14.IV.04)

*
Voci fuori di scena. «Ora che gli abbiamo messo in mano questo nuovo giocattolo, l’ultima carabattola, quella che loro chiamano la scienza, con tutte le altre che gli abbiamo fatto trovare sotto l’albero – i nostri regalucci di natale – e che considerano le loro grandi scoperte e invenzioni, le opere del genio umano, ah ah, di cui si gloriano nel loro infantilismo... Quello che vola e quello che cade, che si muove e che si schianta, che turbina e che esplode, che sfavilla e che avvelena, ecc.: ora la nostra capacità di danno è centuplicata, mentre noi quasi non dobbiamo più agire, ah sì, non esistiamo più, si spiegheranno tutto scientificamente, cercheranno e si scaricheranno tra loro colpe e responsabilità, al modo d’oggi, in nome della ragione o delle ragioni, scannandosi, all’antica, come sempre». (al 28.VIII.05)

*

Un tempo era l’albagia nobiliare a vietarsi il pensiero della morte (morendo si perde la faccia: si è riconosciuti pari agli altri mortali); oggi è la decenza borghese: parlare della morte è sconveniente, e non è conveniente (la scienza ci farà immortali – e intanto perché rovinarsi cene e viaggi?).
Perfino col sesso il borghese si è fatto sfrontato – con la morte, che ne ha ereditato lo sporco, si mantiene pudico; del resto per lei non c’è ancora un contraccettivo efficace. (28.VIII.05)

*

Turismo: tra eretismo e meteorismo – una pandemia di turbolenze neurologiche e flatulenze gastroenteriche sparse su tutta la terra. Una dispepsia planetaria. Torme di sonnambuli che lasciano un luogo di cui non sanno niente per aggirarsi in un altro di cui sanno ancora meno.
Per questo onnivago trepestio e zappettamento, seminato da una indiscussa induzione, e nutrito con lo spostamento di quintali di concime fecale, spunta e cresce appunto l’Indotto, fiore dell’economia moderna. (16.VIII.06)

*

Chierici ciechi e ipocriti, dopo aver partecipato allo scempio, per anni complici muti e attivi, – con prebende, privilegi –, ora che finalmente
vedono, o piuttosto fiutano, perché oppressi da tonnellate di merce-merda e di merda che non si sa più come smaltire – ah, ecco che ora gridano flebilmente, sospirano, rimpiangono (le loro poveramente dorate infanzie): oh che cosa abbiamo (hanno) fatto! (all’8.II.07)

*

Giornata mondiale dell’acqua. Giornata mondiale della lentezza. Giornata mondiale della qualità. Giornata mondiale, ahinoi, della poesia...
Le giornate mondiali: annunciano allarme, catastrofe: si istituiscono per qualcosa che è in esaurimento o in estinzione, o è già estinto: la qualità, per esempio... Con un tale aggettivo, poi, «mondiale», così minacciosamente connesso alla guerra e al calcio, che è un’altra forma di guerra, civile... E come si celebra in Italia questa luminosa giornata della poesia? Officianti: attori di servizio e poeti al fischio. –
Vite soufflons la lampe... (21.III.07)
*

Rimette d’osso

chi si vende al dettaglio e chi all’ingrosso
chi mette pancia e chi si spolpa all’osso

l’ossimoro ci investe, ci sta addosso,
su due gambe portiamo grasso e osso

è questo gente il magro paradosso:
produrre grasso ci ha ridotto all’osso

(30.IV.07)

*

La poesia è un incantamento, un’esca – anche un’esca avvelenata... Qualcosa che cattura, accende, brucia: un veleno ardente, un farmaco per animi forti, mica un annacquato truffaldino, un brodino familiare o un frullato di lezio poetico al banco...
Come beffardamente si vanta Corbière, nella celebre dedica all’amico albergatore di Roscoff: «Noi siamo entrambi due begli avvelenatori. / A te gli stomachi, Le Gad, a me i cuori!».
Se quello strano estratto che si versa e coagula su carta non àltera e incanta e intossica, vuol dire che sulla carta non è colato che il nulla d’epoca, e questo la fa buona per il riciclo o il macero. (23.VI.07)


Diario postumo, I è uscito sulla rivista "Pagine", XVIII, 54, gennaio-marzo 2008.
.