martedì 22 novembre 2011

Ad altezza della specie

*
Artibus ad summum donec venere cacumen.
Lucrezio

Solo chi fosse arrivato a un distaccato sprezzo per la cultura dell'uomo dall'illusione umanistica, sarebbe turbato oggi dallo svilimento e dalla svendita. In lui, per un ilare e cruciale paradosso, il disinganno attuale deve convivere con le archeologie di quella illusione.
Per chi ha sempre visto e vissuto l'umana verità di viscere e chiacchiere, e vi si riconosce, che queste siano diventate un valore e abbiano corso sul mercato è un esito felicemente naturale. È con felice naturalità che quanti hanno avuto per sola musica della vita le canzonette ne fanno finalmente, con la benedizione dello Stato, la colonna sonora universale; canticchiano i loro poeti; riconoscono in giornalisti e conduttori televisivi i loro intellettuali, ecc.
No, questo non è un lagno stantio sulla «cultura di massa», e neppure è l'espressione d'una nostalgia retroversa della cultura che si diceva alta o d'élite... Questa è l'imbarazzata constatazione d'una discordanza disperante: com'è che si tengono insieme il convincimento senza ritorno - morto alle viete distinzioni tra alto e basso - che questa è, definitivamente, la cultura umana, la cultura ad altezza della specie (e di razza italica specialmente); come si connette questo non già pensiero ma sentimento irreparabile, con le rovine dell'illusione umanistica che ancora ingombrano la mente nei loro decori rinascimentali o romantici - superomistici: il genio, la grandezza, lo splendore dell'arte?...
Perché di questo si tratta, questo ci si prova a riconoscere: l'orrore della propria specie, idiota e macellaia senza redenzione possibile, dilagante nell'orrore di sé come specie e anche, via l'abito di scena, come esemplare a parte, sprezzante amleto almanaccante; e questo vuol dire appunto che la memoria di quella illusione - lo slancio verticale, virtuoso che la coscienza del male, della mediocrità o nullità sostanziale della vita portava in sé contrapposto - ancora persiste, ma senza più efficacia correttiva, niente più «egregie cose» in vista, le «urne de' forti» non accendono un bel niente, fredde ceneri... sicché ci si può solo stremare in un tragicomico bilico tra la pratica solitaria, criminale della scrittura e il silenzio.

venerdì 1 luglio 2011

Le tigri dell’ira

*

Specula et spectacula: quelle battute, quelle smorfie, quelle gesticolazioni: si specchiano gli uni negli altri coi loro logori repertori obbligati: cortigiani e avversari, ingrugnati o ridenti o irridenti…
Sono spettri che si affollano la sera negli studi televisivi e affiorano dagli schermi per entrare nelle inquiete stanze degli italiani – rappresentanti del popolo e presentatori popolari: macchinali silhouettes, caricature umane che hanno perso il loro peso specifico in pensiero e sangue, involucri divorati da una mortale irrealtà.
Eccoli replicare nello specchio allucinato dei televisori, la partita truccata che si trascina nella luce smorta di parlamenti malati – tra la protervia di chi impone e l’ignavia di chi si oppone – senza nerbo, senza sdegno, senza ingegno: tutti comunque fatalmente alieni da una diversa idea del mondo che non contempli il prodotto lordo ma la lordura che produce.
Milioni di occhi e di orecchi soccombono a quei vaniloqui, disperano o si stordiscono con lo sberleffo dei comici – mai così folti come in questi anni drammatici!
Ma dal profondo, da un interno subbuglio, non sale, non arriva a farsi sentire la voce di dentro che intima: non ridete, adiratevi?

«Le tigri dell’ira sono più sagge dei cavalli dell’educazione.»

A dominare, ahinoi, sono i cavalli: tranquilli trotterellano coi loro personali paraocchi e anche quelli che s’impennano sono sicuri della stalla e del foraggio.

«Aspettati veleno dall’acqua ferma.»

Lode all’autore dei Proverbi infernali – e guai a quel popolo che non è capace di adirarsi.

lunedì 11 aprile 2011

Cartigli

*

Presto è tardi
. Non ci si libera mai abbastanza presto di un despota o di un autocrate demoscopico. Di solito si lascia che fili il perfetto e fatale amore con le sue folle, sedotte con l’eterno repertorio di promesse e menzogne. Sostenuto da quanti sostiene e sostenta, ha dalla sua la cecità dei numeri, gli opportunisti che osannano e gli oppositori che non osano (o si azzuffano tra loro su come liberarsi e su chi sarà il liberatore). Corrivo e protervo può resistere a ogni damnatio e produrre un danno inarrestabile: tutto andrà in pezzi intorno a lui, compresa, ma troppo lentamente, la roccaforte del suo potere.
Solo il danno di tutti, sedotti e dissidenti, il danno totale, manderà all’aria il baraccone: cruento o grottesco che sia l’esito, per non dire di quando la fine arriva unicamente per cause naturali… Ecco perché non si dà liberazione che dietro il suo comico «finalmente!» non abbia il tragico «troppo tardi!».

lunedì 4 aprile 2011

Cartigli

*

Esortazione. Giovane poeta italiano, che non ti rassegni all’abiezione in cui è caduto il tuo paese eppure vedi impietosamente che non c’è salvezza possibile, ripara all’interno, chiedi asilo poetico: c’è una sola Italia dove vivere – come nella carducciana «isola dei poeti, degli eroi»... Non la penisola del tempo, ma un’isola della mente, una terra di morti, che sono i soli vivi – beata e non beota come quella dei morti-viventi che l’assediano e divorano giorno dopo giorno. Questa sia la tua Italia – l’altra faccia della merdaglia.

venerdì 25 marzo 2011

Cartigli

*

Per Frederick Rolfe. «Il suo intelletto era stanco, consumato da anni di speranze non soddisfatte, di solitudine, di lavoro senza premio».
...
«La vita tra milioni di uomini dalla favella articolata era divenuta per lui un onnipresente orrore. Egli si chiedeva di frequente che cosa lo trattenesse dal gettarsi dalla finestra sulle pietre di Roma».
È da tali stanchezze abissali, da tale desiderio di precipizio e silenzio che possono levarsi slanci verticali di fervore edificatorio – ovvero opere di così inusuale splenetico splendore come l’Adriano VII.
Poiché è lo strapiombo che sostiene la vetta. Senza queste due postulazioni opposte, in cui picco e abisso si specchiano, c’è la piattezza dei ben accasati nel finito – le opere di pianura, trite e rassicuranti.
La stanchezza di Rose era la stanchezza di Rolfe. L’ascesa mirabolante di Rose al papato – un papato straordinario, fuori dalle regole, come il personaggio e la sua nomina – è l’ascesa mirabile di Rolfe dall’abisso di stanchezza e disgusto del mondo all’invenzione straordinaria che è il racconto di quel papato. Una immaginazione dantesca applicata al secolare; una chiaroveggente distribuzione di condanne – o un fantasticato regolamento di conti – e una drammatica redenzione personale senza compiacimento...
Il paradiso in terra per un prete mancato, o reietto, e assoluto zero mondano, non può essere che un’iperbole adeguata al suo orgoglio di scrittore: essere fatto papa... Aveva sulfuree credenziali, acquistate in anni di fallimento e esilio – e dell’inferno, nel precario paradiso del suo papato, ci dà appassionate impassibili notizie.

lunedì 14 marzo 2011

Cartigli

*

L’opera a metà. Dove comincia, o dove finisce, la differenza tra un’opera incompiuta – lasciata a mezzo dal suo autore – e un’opera diruta – dimezzata dal tempo distruttore? Prendiamo a esempio la chiesa della Sagrada Familia e l’abbazia di San Galgano: due grandeggianti relitti che si incontrano a metà strada: la prima ha perduto il futuro, la seconda il passato...
Il monumentale o lo statuario, innalzandosi e sgretolandosi sotto i nostri occhi, illustrano con fisica efficacia il dilemma; ma un medesimo confronto si può fare in poesia, che so, tra le strofe che ci arrivano mutile di Alcmane o di Saffo e quelle sospese, a frammento, di Campana, o i versi abbozzati, abbandonati tra le carte di Govoni o Penna.
L’opera non compiuta è un’opera che pare sottrarsi alla distruzione: imitandola con la sua incompiutezza in qualche modo la elude, forse la irride.
Ma, si può obiettare, il tempo rovina anche le sue rovine, così come la sua rosura non si arresta di fronte all’interrotto – e tuttavia, a quel punto, tra i segni della mano mancata dell’autore e quelli della mano immanente del tempo, le tracce sono bell’e confuse e il distruttore resterà pur sempre un po’ giocato – previsto.
Comunque, anche escludendo un’intenzione assicurativa o ironica nell’autore (di solito le opere restano incompiute per ragioni più contingenti che concettuali), il risultato non cambia: la confluenza confonde le acque e l’interrogativo ci ondeggia su.

venerdì 18 febbraio 2011

Cartigli

*

L’ipernichilista. Il nichilismo è una casa – una casa come un’altra. Spesso confortevole.
Chi ci vive di solito non se ne stacca. Non è forse abbastanza nichilista per perdere anche la mancanza di ogni fede possibile: crede fervidamente in nulla.
Bene annidato nella nientità, che offre gli agi e le agitazioni di tutte le clausure, questo ansioso sedentario soffre di un eccesso di sicurezza: il suo è il sistema dei sistemi: inattaccabile, consente un’arroccata solitudine – ma nessuna via d’uscita. Per paura e mancanza di contraddizione, è condannato a diventare il monumento del Monaco del Nulla o, sorte più irridente ma non spregiata, il guardiano della Casa della Fama.


.

domenica 13 febbraio 2011

Cartigli

*

Due opposizioni a un aforisma di Cioran. «Se Noè avesse avuto il dono di leggere il futuro, non c’è alcun dubbio che si sarebbe fatto colare a picco» (Sillogismi dell’amarezza).
Prima opposizione (teologica): Se Noè avesse avuto il dono di leggere il futuro non gli sarebbe sfuggito che quel futuro Dio lo conosceva prima di lui; no, Noè era un uomo di Dio, gli avrebbe comunque, ahinoi, tenuto mano.
Seconda opposizione (zoologica): Perché mai colare a picco? Lui e i suoi due figli, giù, fuori dell’arca. Sarebbe bastato.

.

mercoledì 5 gennaio 2011

Cartigli

*
Cadaveri e scorie. Si seppelliscono le scorie industriali come si seppelliscono i morti ammazzati: di nascosto; le scorie sono corpus delicti. E qual è dunque il delitto, l’atto che ha prodotto quelle materie morte, e mortifere come e più di tutte le decomposizioni organiche? Nessun capitano d’industria e colonnello sindacale arrossirebbe di vergogna a questa domanda, per quel che compie e lascia compiere: à la guere, ecc. Le superiori ragioni produttive. I cadaveri si occultano. E non a caso a questo compito si votano o sono chiamati certi signori assai esperti in ammazzature e sparizioni: loro, abituati agli affari sporchi, si sporcheranno le mani. Il paese, virtuoso e operoso, produce.


.