venerdì 18 dicembre 2009

Intermezzo. Tre poesie di Shelley

*


Mutevolezza

Siamo nuvole che velano la luna a mezzanotte:
quanto incessanti celeri passano, si accendono
e tremano, striando radiose le tenebre! – ma presto
la notte si richiude, e addio per sempre;

o lire abbandonate che mandano risposte
diverse, con corde dissonanti, al soffio vario
dei venti e nessun moto aggiunge a quella fragile
struttura modulazione o tono pari all’ultimo.

Riposiamo: un sogno può avvelenare il sonno;
ci alziamo: un pensiero insensato guasta il giorno;
sentire, ragionare o immaginare, riso o pianto,
prendersi matta pena o scacciare gli affanni:

è lo stesso! Poiché, gioia o dolore, la pista
della loro partenza è sempre sgombra:
il nostro ieri non può mai replicarsi nel domani;
tranne Mutevolezza tutto muta.



Ozymandias

Un viaggiatore da un’antica terra tornando
mi ha detto: due gambe senza tronco, enormi, in pietra
stanno su nel deserto… Un po’ sepolta accanto
sulla sabbia, una testa spezzata, e il suo cipiglio,
il labbro increspato, il ghigno di freddo comando,
dicono che lo scultore ha visto bene quelle passioni,
impresse in cose senza vita, e vive ancora
oltre la mano che le colse e il cuore che le nutrì:
sul piedistallo appaiono queste parole:
«Ozymandias è il mio nome, re dei re:
guardate le mie opere, o Potenti, e disperate!».
Non resta altro. Intorno alla rovina
di quel rudere immenso, nude, illimitate
sabbie lisce e deserte si stendono lontano.



Sonetto

Non sollevare il velo dipinto che chiama
chi vive Vita: benché di forme irreali istoriato
si trasfiguri solo in quello che vogliamo
credere con colori sparsi a caso – dietro in agguato
ha Paura e Speranza, sorti gemelle, sempre a tessere
le loro ombre sul cupo e cieco baratro.
Conobbi uno che l’aveva sollevato – in cerca,
era tenero il suo perso cuore, di cose da amare, ma
non ne trovò, ahimè, né c’era un’offerta
del mondo, una, che potesse approvare.
Passò tra gli sbadati, i tanti, un fulgore
in mezzo alle ombre, una macchia lucente
su questa buia scena, uno spirito teso
verso il vero, e come il Predicatore non trovò niente.



I versi sono tratti da Percy Bysshe Shelley, Alla Notte e altre poesie, traduzione di Gianfranco Palmery, Il Labirinto, Roma 2002.