venerdì 18 dicembre 2009

Intermezzo. Tre poesie di Shelley

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Mutevolezza

Siamo nuvole che velano la luna a mezzanotte:
quanto incessanti celeri passano, si accendono
e tremano, striando radiose le tenebre! – ma presto
la notte si richiude, e addio per sempre;

o lire abbandonate che mandano risposte
diverse, con corde dissonanti, al soffio vario
dei venti e nessun moto aggiunge a quella fragile
struttura modulazione o tono pari all’ultimo.

Riposiamo: un sogno può avvelenare il sonno;
ci alziamo: un pensiero insensato guasta il giorno;
sentire, ragionare o immaginare, riso o pianto,
prendersi matta pena o scacciare gli affanni:

è lo stesso! Poiché, gioia o dolore, la pista
della loro partenza è sempre sgombra:
il nostro ieri non può mai replicarsi nel domani;
tranne Mutevolezza tutto muta.



Ozymandias

Un viaggiatore da un’antica terra tornando
mi ha detto: due gambe senza tronco, enormi, in pietra
stanno su nel deserto… Un po’ sepolta accanto
sulla sabbia, una testa spezzata, e il suo cipiglio,
il labbro increspato, il ghigno di freddo comando,
dicono che lo scultore ha visto bene quelle passioni,
impresse in cose senza vita, e vive ancora
oltre la mano che le colse e il cuore che le nutrì:
sul piedistallo appaiono queste parole:
«Ozymandias è il mio nome, re dei re:
guardate le mie opere, o Potenti, e disperate!».
Non resta altro. Intorno alla rovina
di quel rudere immenso, nude, illimitate
sabbie lisce e deserte si stendono lontano.



Sonetto

Non sollevare il velo dipinto che chiama
chi vive Vita: benché di forme irreali istoriato
si trasfiguri solo in quello che vogliamo
credere con colori sparsi a caso – dietro in agguato
ha Paura e Speranza, sorti gemelle, sempre a tessere
le loro ombre sul cupo e cieco baratro.
Conobbi uno che l’aveva sollevato – in cerca,
era tenero il suo perso cuore, di cose da amare, ma
non ne trovò, ahimè, né c’era un’offerta
del mondo, una, che potesse approvare.
Passò tra gli sbadati, i tanti, un fulgore
in mezzo alle ombre, una macchia lucente
su questa buia scena, uno spirito teso
verso il vero, e come il Predicatore non trovò niente.



I versi sono tratti da Percy Bysshe Shelley, Alla Notte e altre poesie, traduzione di Gianfranco Palmery, Il Labirinto, Roma 2002.

venerdì 20 novembre 2009

Diario postumo III

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III

Chi acquista piena coscienza del negativo si troverà, per questo semplice fatto,automaticamente posto nell’unico punto da cui è possibile ingaggiare la lotta: nel limite.
Héctor A. Murena


Il sogno della scrittura. Soltanto sognare, senza scrivere. Sognare e pensare come se si stesse scrivendo, credendo di scrivere: un fumatore d’oppio che guardi passare le sue visioni. Con lo stesso distacco e incapacità di operare, o convinzione di avere già operato (l’azione del pensiero)... Il sogno della scrittura: il sogno di un sogno. Pure, scrivere richiede una attitudine e alcune operazioni che appartengono alla veglia; mentre il puro pensare pensieri, l’abbandono fantastico, le immaginazioni, ci spossessano e sottraggono alla realtà, come nel sogno notturno, non impongono nulla né portano a nulla se non al grande largo, al disteso o fluttuante mareggiare dell’illusione. (27.XII.88)

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Riuscire a non far nulla non facendo nulla: questa è la virtù assoluta. Di solito invece si finisce col far qualcosa per avere una cattiva ragione per non far nulla. E questa è la virtù del mondo – o suo vizio cardinale. (19.V.89)

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«Oggi la stupidità si vede di più», diceva Cocteau; «si vede di più perché ha il diritto di parola. Oggi si interroga la Stupidità in pubblico, ed essa concede interviste. Oggi la Stupidità pensa!».
Da allora la stupidità è diventata sempre più visibile – onnipresente: ha scritto libri, appare in televisione, siede in parlamento... E siamo ben oltre con certa portentosa stupidità plebiscitaria che si offre in «pacchetto», con le istruzioni per l’uso: ormai la stupidità riflette su se stessa. Oggi la Stupidità si pensa! (9.VIII.89)

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Arte della pausa. Ah vivere nelle pause, vivere di pause! Piacere di disorientare il tempo – costringerlo con la nostra elaborata immobilità ad anellarsi intorno a noi, che resteremo così – per un momento assoluto e illusorio – fuori della sua portata.
Dalle pause non si vorrebbe mai uscire, per non doverne riconoscere la natura ingannevole: erano soltanto il prima di un dopo che le nega. Ma intanto in quel nido sospeso il tempo predace sembrava non arrivare più. La vita eterna non sarebbe dunque altro che l’arte suprema di vivere nella pausa? (4.IX.93)

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Col Vecchio testamento gli ebrei hanno imposto il proprio genio poetico all’occidente; nel Nuovo testamento l’occidente ha creduto di trovare la sua rivalsa: l’indipendenza bellicosa di dirsi cristiano.
Gli ebrei possono sempre vantare l’ironica superiorità di avere conquistato popoli e nazioni a una fede che essi non hanno.
I gentili, a differenza degli ebrei, più cauti, sono stati impazienti di riconoscere il salvatore – rimanendo poi a pazientare, e a imperversare, sotto la croce, per duemila anni e ancora aspettando la salvezza promessa.
La pena finale per la cristianità sarà dover riconoscere la ragione di Israele – a quel punto, perdendo tutto: fede e speranza; la carità è già estinta. (I.XII.95)

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Mito, destino, maschera... Quanto trucco, quanti coturni per le nostre povere storie – palpiti di corpi precari. Conforti della carne, qualche sparsa felicità, molto dolore – e la scomparsa, la perdita definitiva: nulla, zero.
La luce vera viva è quella degli abbracci, degli sguardi; l’altra è la luce morta degli smalti che ci illude con la lusinga della durata, della immortalità: eppure è viva e vera per noi solo finché è viva l’altra luce, quella mortale... (all’8.II.96)

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Noi abbiamo dimenticato cos’è poesia – e come colpisca la sua rivelazione capitale; cosa hanno significato i rari versi di Leopardi, i Canti orfici, Sbarbaro col suo Pianissimo. Guidati da un gusto alterato e stanco, ci accontentiamo di manufatti inerti, di agitazioni artefatte: prudenze cartesiane e oracolarità a tavolino, freddure puberali e studiate brutalità; in generale, pensieri ordinari e linguaggi arbitrari... Della poesia non resta che un ormai troppo familiare fantasma che ci tempesta e tedia, senza darci più neanche un brivido, con le sue apparizioni innecessarie incessanti... (8.V.96)

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Sono le sofferenze degli offesi, dei feriti, degli esclusi, che sconquassano il mondo: la loro mente è sismica; la loro anima, una polveriera.
Ognuno di loro può dire: «State attenti, produco disastri». (12.IX.96)

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La sfortuna sono gli altri. Quanto più ognuno non fa la sua parte, tradisce compiti e impegni, tanto più cresce e si fortifica la sfortuna. Sono le azioni mancate, le deliberate omissioni, la negligenza o l’indifferenza o la stoltezza a creare questo espiatorio e tragico spettro: lo sfortunato. E, del resto, che tenebroso vermicolio dietro lo spauracchio Sfortuna: inetti, invidiosi, intriganti... e fortunati. (14.IX.98)

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Stoà. Ci sono suicidi che sono un complimento alla vita – un complimento che la vita non merita: sono i suicidi a caldo, quelli dell’ardore giovanile; ma ci sono anche i suicidi dell’impazienza senile: sono i suicidi a freddo – una forma di congedo anticipato. (23.XII.05)

La morte, male congenito – la morte in noi: il suicida è illuminato a giorno, o a notte, da questa verità imperdonabile, e da essa non può più prescindere.
Per lui la scelta non si pone tra la vita e la morte, bensì tra una morte tempestiva e volontaria e una morte rinviata e occasionale – biologica, accidentale – in un certo senso, una morte delegata, all’età, alla malattia, al caso... La scelta del suicida è curarsi da solo. (al 5.VIII.06)

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La maledizione di Tutankamon: è tutta sua. Un fiero egiziano antico, giovane re guerriero morto in gloria, che si ritrova portato in sala raggi, sottoposto all’anatomia di futili illazioni medico-turistiche sul suo decesso plurimillenario; dalla vita breve di faraone alla morte secolare in vetrina che lo aspetta, la sua vita di mummia da esposizione – davanti a milioni di corpi flaccidi e flatulenti, sonnambuli che nel loro passaggio dal niente al niente, una mattina poseranno i loro occhi lubrichi sul suo viso di rimpastata polvere, portatori nella valle di Luxor di shit & money. Per gli altri faraoni l’attenzione studiosa, sommessa degli storici, per lui quella strillata, volgare dei settimanali: una star del Mercato, un sarcofago d’eccellenza, una tomba a cinque stelle, ecc. ecc., e mai che Anubi li evisceri quanti sono. (al 5.XI.07)

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Che grave errore, che cecità, da parte di chierici e copisti medievali, aver trascurato le opere dei menestrelli per quelle di Dante, Cavalcanti, ecc. Oggi avremmo la tradizione giusta per gli intelletti contemporanei: dai testi dei minstrels a quelli dei cantautori, che gli illuminati editori italiani invece non si stancano di stampare in rigorose edizioni curate da specialisti finissimi. Quanto agli accademici, così antiveggenti e arditi, avrebbero dalla loro un passato e un crisma per sostenere, senza esporsi all’ignominia e al ridicolo, le ragioni delle canzonette contro la poesia. Ma che dico: avremmo altro in verità che la «poesia» delle canzonette? (al 16.II.08)

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Ne girano di sogni, e soldi a ruota, in carta e celluloide! Come farebbero i perbene senza il male di quella malavita che li fa fantasticare e oltretutto guadagnare? Che farebbero senza mafie e camorre; dove troverebbero il piacere di rappresentare e vedere quel che loro possono solo immaginare: gli altri, i reprobi, che uccidono, lucrano, si divertono, si abbuffano e fottono sfrenatamente – fintanto che riescono a farla franca, a non finire in galera o morti ammazzati...
Ma a chi sta lì seduto a succhiare emozioni da un libro o da un film in uno sfolgorio di sangue sudore e sperma, non può sfuggire che anche i suoi più modesti e domestici piaceri d’ordinanza dureranno finché anche lui riuscirà a farla franca, e c’è chi ci riesce, pur timorato, appena fino a venti, altri a quaranta, a sessanta, al più oggi fino a ottanta anni – ma le statistiche benedicono pure tanti vegliardi malvissuti, o meglio vissuti...
E dunque quante segrete invidie e oscuri tremiti in quella atarassia di spettatore conquistata, nella sicurezza del salotto o della sala cinematografica, con la sua vita «normale» che gli risparmierà (forse) sangue e morte violenta, mentre va verso la sua, chissà come e quando, morte tranquilla. (al 24.II.08)

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– Siamo esseri umani...
– E ce la mettete tutta per rappresentarvi al peggio, o magari vi riesce senza sforzo, e intanto il meglio non vi risparmiate per cancellarlo... Fate fuori i migliori, per esempio, e non solo in vita. Guarda le infamie della fama e della gloria: i mercatini e le volgarità, il commercio degli aneddoti e delle reliquie, le falsità sciocche, le banalizzazioni... Quotidiani, rotocalchi, cataloghi, comunicati stampa...: è lì che operate al meglio per il peggio, è lì che siete inarrestabili. (29.II.08)

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Prodezze produttive. Questa è una società cui il cancro è congeniale, congenere – nasce e cresce con lei, con la sua produzione, alimentare, chimica, minerale, siderurgica, elettronica, elettromagnetica, ecc. Producendolo, lo usa. I disastri umani e sociali che il cancro adduce dovrebbero stare sotto la voce spesa, rappresentare il passivo del bilancio, e invece, op là, salto mortale dell’economia, eccoli rientrare nel prodotto lordo, producendo a loro volta reddito, da industria – farmaceutica, ospedaliera – e da indotto, che completano e rafforzano questo felice ciclo produttivo producendo ancora cancro, con i loro fumi, liquami e scorie... nonché tanta letteratura scientifica o eroica e patetica sul tema. (1.III.08)

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Tra il volere e il potere c’è di mezzo il mestiere.
Tra il bello e il vero c’è di mezzo il mistero. (26.III.08)

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Paura e speranza.

But we, poor slaves to Hope and Fear,
Are never of our joys secure

Ma noi, poveri schiavi di Speranza e Paura,
non siamo mai sicuri delle nostre gioie

Rochester, The Fall – A Song


[...] behind, lurk Fear
And Hope, twin Destinies; who ever weave
Their shadows, o’er the chasm, sightless and drear.

[...] dietro in agguato
Paura e Speranza, sorti gemelle, sempre a tessere
le loro ombre sul cupo e cieco baratro.

Shelley, Sonnet


O paura e speranza d’occidente!
La sua regola d’oro, i sacri pil-
astri – giaculatoria demente e
scongiuro d’ogni giorno: Petrolio e Pil:
lordura fossile e lordura vivente.

Persio, Quintana
(... IV.08)

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Riferisce il cronista, colpito forse dalla vertigine di tanta oscura consapevolezza, di un poeta che, dal palco di una basilica romana, si è dimessamente proclamato «l’interprete del silenzio degli dei».
Il loro silenzio, è vero, si leva clamoroso dalle sue paginette: Apollo certo non gli ha mai parlato, e nemmeno Dioniso. Crono, che pure qualche progetto su di lui ce l’ha, e non lontano, per ora non apre bocca.
Con un fremito o un cachinno, chissà, avrà consentito la platea a quella impudente modestia.
Ma è questa verità rivelata, o segreto di Pulcinella, che quel sottile esegeta di sé ha inteso consegnare ai presenti? O non ha voluto invece, con una scaltra antifrasi, lusingarli e dichiararsi, quale di fatto è, interprete delle chiacchiere degli umani? (20.VI.08)


Diario postumo III è uscito sulla rivista «Pagine», XVIII, 56, luglio-novembre 2008.

domenica 1 novembre 2009

Intermezzo. Tre poesie di Sponde

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Non vedi quella freccia che si spinge
partita dalla mano dritta nell’aria
e l’insegue? Sale, sale, cede: ma di colpo
ahimè ricade, cade, perde il suo impeto.
È la solfa dei giorni qui: l’arroganza
dei mostri di terra, succhiata col latte,
che sfiora ecco dei monti la più alta
vetta e sulle rocce in strapiombi s’abbatte.
I nostri giorni: salito a quell’altezza
quando sarai lì, fermo in quel punto
insuperabile, la discesa ti aspetta.
La freccia ha piume, l’aria che va inseguendo
è campo del turbine: avanti, impara
che la tua vita è piuma e il mondo, vento.


*

Chi sono mai, chi sono questi cuori
idolatri, adoratori di successo
ai piedi del mondo: valletti, signori:
anime d’ebano e facce di gesso?
Queste maschere a schiere false e matte
che lisciano con gusto non so che venditori
di fumo di corte, questi trionfatori
su un cielo che non possono combattere?
E quei bordeggiatori che lasciano il porto,
devoti alla vita, infedeli alla morte,
per stella il loro bene, la fantasia per vento?
È il mare in cui remo e temerei di perire
se non sapessi che la vita è soltanto
la lanterna che mi guida al morire.


*

Ma se il mio fiacco corpo che scorre via
come acqua – e dura più d’uno più forte –
già s’accosta al varco della morte
e male su male alla tomba mi avvia,
perché mi oppongo al vento che tempesta
la sabbia dei miei giorni, inarrestabile?
Non è meglio svegliar l’anima semmai il turbine
nel sonno insieme al corpo la disperda?
Che il corpo dorma, mia anima, tu vigila
vigila, in guardia dai terrori, attenta
che addormentata il Ladro non ti sorprenda:
l’attimo del suo arrivo, anima, è incerto:
ma a noi basta che questo autore di vita
nasconda il tempo, e non il suo progetto.



Le poesie sono tratte da Jean de Sponde, Versi d’amore e di morte, traduzione di Gianfranco Palmery, Il Labirinto, Roma 2007

http://www.labirintolibri.com/sponde/versidamoreedimorte.html

mercoledì 21 ottobre 2009

Diario postumo II

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II


È difficile cavarsela con gli errori dell’epoca: se ci si oppone ad essi,
si è soli; se ci si lascia irretire, non se ne cava né onore né gioia.

Goethe


Che appropriata citazione ai tempi le parole che il «beato di Dio Ticone» – come si legge nelle pagine finali del Viaggiatore incantato – udì da San Paolo, quelle apostoliche parole che annunciavano: «Allorché tutti diranno pace e sicurezza, inopinata cadrà su loro la rovina universale». (18.VI.87)

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Penso, poiché manca o è assai rara, a una saggistica necessaria, inverata, che vuol dire fatta lavorandosi cervello e cuore, per trarne linguaggio e pensiero vivo, come il poeta trae da sé e lavora la sua vibrante materia fantastica. E così mosso, il critico, da una passione di verità, come il poeta di bellezza (o come quando è poeta, poiché quasi sempre una tale saggistica è opera di poeti), estrae e lavora la propria linguistica materia viva – in cui il pensiero risplende e batte con accento di verità, a differenza della tanta orripilante e vana saggistica odierna che, in quella opaca congerie gergale in cui è scritta (ideologica, psicoanalitica, semiologica...), non è altro che lingua morta e pensiero morto. (3.VI.88)

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Hanno ragione gli scienziati che al convegno dell’Unesco, a Venezia, hanno quasi concordemente dichiarato che il mondo è prossimo alla catastrofe ma che la scienza può salvarlo. Non meno concordemente essi hanno chiesto che il mondo riconosca alla scienza questa facoltà e le affidi le risorse necessarie all’opera di salvezza.
È una giusta petizione che si rifà a quello che in fisica si chiama, credo, principio di accelerazione – e che non confonderemo con quello che in morale andrebbe sotto il nome di volontà di espiazione. È vero, la scienza può salvare il mondo, se porterà in un tempo più breve alla definitiva catastrofe questo mondo, fondato sulla violenza distruttrice della scienza e della tecnologia. (10.VII.89)

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Approssimazioni. È forse questa interiore alterazione della distanza, provocata da sempre più rapidi spostamenti nello spazio, che si traduce in parificazione o azzeramento del tempo: quel senso di indifferenziazione temporale, per cui tutti i secoli tornano a vivere in una spaesata contemporaneità, e che corrisponde nelle arti a quella indifferenziazione o compresenza degli stili così simile, ma con tratti che non hanno precedenti (per estensione, celerità...), al vortice manieristico che altre età hanno conosciuto.
Questa artificiosa dislocazione, determinata dalla tecnica e dalla velocità, all’originaria radicale irrealtà del reale ne ha aggiunta una ulteriore – una irrealtà geografica: quelle petulanti figurette che trascorrono confusamente per le vie di Firenze o di Madras, lì proiettate da Tenerife o da Modena...
Tutto arriva così a collocarsi in una contemporaneità approssimata – che è, di fatto, una contiguità velocemente percorribile, approssimabile –, che resta appunto soltanto prossima, producendo un effetto di totalità irrimediabilmente approssimativo. (18.IX.89)

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Blasoni dell’anima contemporanea. La sicurezza. È la trepida anima contemporanea che, nel mondo dell’apparenza e della fugacità, vuole la sicurezza – e naturalmente, l’assicurazione, ogni forma di assicurazione – purché possa lì per lì distoglierla dalla sicurezza della morte.
Il bene. Chi lo ha mai visto? Non può essere che una cosa per pochi. I beni invece sono qui, visibili, offerti a tutti... Che cos’è mai la coscienza? Una voce tediosa che ti segue dappertutto. Meglio un telefonino.
La grande madre-chiacchiera. Senza questo garrulo dar di fiato, nei salotti e nei mercati, arruffone e opportunista, sentimentale, bugiardo: esisterebbero i giornali, i dibattiti parlamentari, i talk show, i convegni? Una bava opaca che ricopre tutto, invischia ogni possibilità di pensiero, di autentica creazione: è la grande madre-chiacchiera, la mascherata isterica della realtà. (4.XI.93)

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Avviso agli orgogliosi. Coltivate l’ordinario. Una bellezza eccessiva spaventa o stanca. Non pretendete energia e attenzione da una specie che trova nei giornali del mattino e nelle serate televisive i suoi conforti. Offrite qualche lusingatrice volgarità; e soprattutto – mostrandovi sensibili a questo sfavillante sfascio – fateli ridere: chi va verso la distruzione ama essere distratto; e con qualche sconcezza, metteteli a loro agio: che ognuno si senta come nel proprio letto.
Se invece non saprete, ostinati e avari, rinunciare a quei futili splendori in cui ponete il vostro onore e il vostro orgoglio, non inveite contro gli uomini i tempi la fortuna; incapaci di umiltà, accettate l’umiliazione – e rassegnatevi all’inedia. (... XI.93)

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Ecco un comico controsenso: la vita irriflessa, questa aspirazione edenica delle civiltà speculari, posta al centro della riflessione. A forza di giacere tra gli specchi, vien voglia di tirarsi su, inseguire un qualche atletismo biologico o eroico... o almeno, ah sgranchirsi un po’ gli istinti! Non può riferirsi che a questo l’espressione «arrampicarsi sugli specchi». (21.III.94)

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Discendenze. Non sono pensatori originali – non hanno né la fede dei grandi discepoli, né l’infedeltà che fa i nuovi maestri. Le loro pagine sono, al meglio, opere d’arredamento. C’è chi riarreda casa Benjamin, chi casa Heidegger, e intanto mettono su casa loro con pezzi trafugati e copie in stile. Mancando di autorevolezza padronale, ostentano l’albagia della servitù: camerieri glossatori e maggiordomi ecolalici. (8.IX.95)

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La furbizia ammicca sempre, anche alla propria scomparsa: la sua ultima risorsa è fare l’elogio della serietà. (11.XII.95)

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Tutti corrono sulle strade
per fare il loro lavoro:
o Italia laboriosa,
come crescono le tue entrate!

I fabbricanti di motorini
fanno il loro lavoro:
moltiplicatevi cadaverini
che si moltiplica il tesoro;

a Torino come a Medellin
tutti fanno il loro lavoro:
avvoltoi e agnelli,
ognuno il suo ruolo;

chi fabbrica automobili
e chi sirene d’allarme,
chi ricambia i pezzi rotti
e chi raccoglie le salme;

chi alleva e chi macella
la carne che non ha parola
e chi ne concia la pelle:
il paese lavora;

le agenzie di pubblicità
fanno tutte il loro lavoro:
danno fango alla città
e ne ricavano oro;

tutti fanno il loro lavoro:
quanti beni, c’è ogni conforto!
schizza in cielo come il petrolio
il prodotto interno lordo;

e oh, gli assessori al traffico
non fanno il loro lavoro?
O città! i tuoi profumi, il coro
solenne dei clacson...

Forse che a Auschwitz
non facevano il loro lavoro?
Come fumavano le ciminiere
e quanta pelle e oro

di denti tutte le sere!

(16.V.98)

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Come un flusso di energia inquinante il denaro dell’industria, elettrizzato in pubblicità, alimenta e muove schiere di larve catodiche... i colorati ologrammi ridenti cantanti ancheggianti smorfieggianti nulladicenti che idioteggiano nella loro naturalità professionale del «come tutti», replicanti del banale, campioni dell’ovvio e del trucido, in cui si specchia e si bea un paese mentalmente raso al suolo a colpi di spot e fiction, quiz e varietà. (al 17.VII.01)

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Il principio per cui le cose avvengono è quello del cedimento. Far cedere con le proprie pressioni o cedere alle pressioni altrui: è tutto qui il moto del mondo, il doppio movimento che fa accadere le cose.
E questo dà un senso surrettizio alla vita, evita l’obbligo doloroso del giudizio e della scelta. È la parodia, in forma di coercizione, del dovere, l’imperativo categorico rovesciato di segno – insomma, la corruzione...
L’opera è irresistibile. (28.V.02)

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Leve poetiche. (Prova per una riscrittura avanguardistica delle storie letterarie). John Keats lascia il servizio a Roma il 23 febbraio 1821. Un felice colpo d’occhio strategico, e Charles Baudelaire viene iscritto sulle liste a Parigi il 9 aprile di quello stesso anno. Mentre Edgar Poe, dodicenne, avrebbe presto colmato il vuoto iniziando il suo turno.
Sul campo intanto restavano ancora, per sei anni Ugo Foscolo, che sarà sciolto dalla ferma a Londra il 10 settembre 1827, e per altri dieci anni Giacomo Leopardi, congedato a Napoli il 14 giugno 1837. (14.VIII.05)

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Non hanno nessun senso del mistero terribile e ridicolo che è la (loro) vita, fatti come sono di una materia ignota – questa cosa familiare e spaventosa: la carne! – che si guasta e altera e corrompe, schiaffata in mezzo ad altra materia altrettanto ignota, anche se laboriosamente classificata: vegetale, minerale... un’illusoria massa di atomi assembrati da un’energia primordiale e sempre sul punto di disgregarsi nelle tenebre di un agglomerato immenso, inesplorato; nessun senso del vuoto tenebroso che li circonda – stanno così, «al sole», insulsi bagnanti che un’ondata sorprenderà travolgendoli... E guai alla letteratura che glielo ricorda, le preferiranno sempre un’arte da spiaggia. (al 18.XII.05)

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L’ora legale: un’ora in più guadagnata alla causa della distruzione.

ora e nell’ora nostra letale
tutti alle tenebre giù a ruzzolare

(al 25.III.06)

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I poeti di piccola cifra, o «con un’attitudine troppo definita«, come scriveva Carnevali di alcuni poeti italiani del primo Novecento, essendo spesso poeti suggestivi, inducono più facilmente all’imitazione, sono più facilmente imitabili – e di fatto molto imitati.
Un pullulare di minime maniere ne è l’effetto, un diffuso epigonismo che nel suo fiacco riflesso rispecchia e illumina i limiti del modello. (28.VIII.06)

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Marinetti ha giocato con le parole e ha fatto scena; Campana ha messo in gioco se stesso e ha fatto poesia. Uno è finito accademico, l’altro in manicomio. Tertium? (... VIII.07)

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Il vero analfabetismo non è quello di chi non sa leggere né scrivere – che è stato cultura della parola e non della lettera, con tutta la ricchezza affabulatoria della tradizione orale; il vero analfabetismo è quello degli italiani che oggi leggono Dan Brown e Ken Follet e Paulo Coelho... e, rimpatriando, trovano lo stile di Alessandro Baricco sublime (Blog Book Crossing), che lo Pseudo Dionigi, o chi fosse, mai li perdoni...
Persi in queste letture d’autobus e da sala d’aspetto, ancora una volta estranei alla loro lingua e alla loro tradizione letteraria. (al 20.IX.07)

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Il paese dove «il sì suona» è ora il paese dove l’«assolutamente sì» rumoreggia, pareggiato dall’«assolutamente no», proprio dei bugiardi che non sanno dire né sì né no, – e lo stuolo appresso degli impagabili pappagalli. (16.II.08)


Diario postumo II è uscito sulla rivista «Pagine», XVIII, 55, aprile-giugno 2008.

martedì 13 ottobre 2009

Intermezzo. Tre poesie di Poe

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Sonetto – Alla Scienza

Tu sei la vera figlia, Scienza, del decrepito
Tempo, col tuo sguardo che fruga e àltera
tutto. Perché al cuore del poeta ti avventi,
avvoltoio che ha per ali realtà usuali?
Come può amarti o pensare saggia
se hai voluto vietargli di vagare
ricercando tesori nel gemmato cielo,
lui che levava in volo impavide ali?
Non hai tirato Diana giù dal suo carro?
E messa l’amadriade dal bosco
in fuga verso una stella più felice?
Non hai strappato la naiade alle fonti,
l’elfo ai suoi prati e a me il sogno
d’estate all’ombra del tamarindo?


Romanza

La romanza che ama il sonno e il canto,
l’ala raccolta, il capo sonnolento,
nel verde tra le foglie mentre tremano
laggiù nell’ombra fonda d’un lago,
è stata un variopinto pappagallo
per me – un uccello molto familiare –
da lei il mio alfabeto, a balbettare
la mia prima parola ho imparato,
nel bosco solitario rincantucciato,
bambino dall’occhio intento.

Eterni anni di Condor hanno da tempo
fatto così tremare il Cielo stesso
lassù tonando tumultuosi al passaggio,
che ormai mi vieto ogni cura vana
perso a scrutare l’orizzonte inquieto.
E quando un’ora di più calma ala
copre il mio spirito con le sue piume –
che quel solo momento in lira e rime
possa passare, un delitto il cuore
lo sentirebbe – cose proibite!
se non vibrasse insieme a quelle corde.


Imitazione

Orgoglio senza fondo: un mare
oscuro mai sondato – un mistero,
un sogno: così appare
la mia vita iniziale – è vero,
quel sogno era pieno di insonni
sfrenati pensieri d’altri esseri
già vissuti, non visti, invisibili
allo spirito – lasciati li avessi
passare con occhio sognante!
Nessuno in terra erediti
la mia visione; con quei pensieri
come in un sortilegio terrei
la sua anima: poiché quella fulgente
speranza, quell’età
luminosa sono spente
e la mia pace al mondo è persa
passata via con un sospiro: ma
non importa, e tuttavia la perdo
con un pensiero un tempo prediletto.


Questi versi di Edgar Allan Poe, nella traduzione di Gianfranco Palmery, sono usciti nella rivista «Pagine», IX, 22, gennaio-aprile 1998.

domenica 4 ottobre 2009

Diario postumo I

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Cos'è Diario postumo?
È un archivio di pensieri, moralità, note in margine: riflessioni sui tempi e sui costumi, su poesia e letteratura, verità e errori d'epoca – brani scritti nell'arco di tre decenni e riferibili, in particolare, alla società italiana contemporanea.

Perché Diario postumo?
Perché è postumo ai pensieri o agli eventi che gli hanno dato vita.
Perché chi lo ha scritto è morto e ora non ne è che il curatore.
Perché chi lo ha scritto è ancora vivo, e queste pagine sono del genere che di solito si pubblica dopo la morte.
Perché l’autore si vede morto e sepolto e la sua esistenza e quello che scrive, tutto è postumo...


I

«... voglio mettere una data alla mia collera»
(
variante: «alla mia tristezza»)

Baudelaire



L’idillio del dopoguerra, il bucolico degli anni ’50, è una melassa di poeti elegiaci, profeti retroversi che prendevano lanterne per lucciole, e lanterne erano gli occhi degli italiani che già luccicavano di avidità, di cupidigia, già brillavano di un’unica mira... Basta rivedere certi film di quegli anni, e li scopri accapigliarsi, strepitare, smaniare: una solare corte dei miracoli in fermento.
Non restava che orchestrare quelle smanie, quegli appetiti, far vibrare i loro fragili midolli – collegarli, elettrizzarli, per spingerli alla pantomima collettiva del Gran Miracolo... e i poveri e belli, e buoni, eccoli rivelarsi voraci, distruttori e imbrattatori come i ricchi e cattivi di cui erano e seguitano ad essere le vittime presunte, in verità piuttosto complici ed emuli sempre più agguerriti e smaniosi in una turbolenta, cieca e generale sarabanda. (9.IV.87)

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L’idea di progresso sembra coincidere radicalmente con un’idea del tempo al futuro. In realtà, il rapporto vero che il progresso ha con il futuro è un rapporto di sottrazione: il progresso sottrae il futuro al presente, non essendo altro che un’accelerazione del presente, la sua consumazione accelerata...
Il progresso è la rinuncia al futuro per un presente progressista.
Che tutti i paesi socialisti arrivino prima o poi al consumismo capitalistico non è né un paradosso né una disdetta, ma l’esito inesorabile, l’unico, che l’idea di progresso consenta.
Non c’è un progresso capitalista e un progresso socialista. Il progresso si fonda univocamente sul consumo accelerato delle scorte e sull’accumulo inarrestato delle scorie. Il suo futuro è il rifiuto.
Al mondo e ai progressisti che affermano di non voler fermare il progresso, il progresso riserva il suo solo, prevedibile pregio: li fermerà. (30.VI.89)

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Giovane poeta italiano, che non ti rassegni all’abiezione in cui è caduto il tuo paese eppure vedi impietosamente che non c’è salvezza possibile, ripara all’
interno, chiedi asilo poetico: c’è una sola Italia dove vivere – come nella carducciana «isola dei poeti, degli eroi»... Non la penisola del tempo, ma un’isola della mente, una terra di morti, che sono i soli vivi – beata e non beota come quella dei morti-viventi che l’assediano e divorano giorno dopo giorno. Questa sia la tua Italia – l’altra faccia della merdaglia. (al 15.IV.02)

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La vita vale poco o niente, almeno per come si esprime nei singoli delle specie (ma anche in intere specie...): lo dice la vita stessa, con le sue consustanziali macellerie, su cui tutti ormai hanno buttato un occhio, serviti a domicilio da cronache e documentari. Nei più sventurati vale ancora meno – e dunque perché mai tanto stupore e sdegno per killer e kamikaze? Al di là delle latitudini e dei costumi che li connotano, essi sono un prodotto planetario del tutto organico; natura e cultura, in questo caso: l’incrocio perfetto allevato dalla modernità mercantile e tecnologica. (al 23.V.02)

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Qui sulla terra, industria delle carni,
macelleria globale, Tagli S.p.A.,
si annuncia un altro giorno di guadagni
e chi ancora non squarta squarterà

e chi non ha incassato incasserà.
Far crescere la pena è un buon affare
poiché la pena è sempre capitale

(al 31.V.02, h. 5,25 a.m.)

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Comici e confessori mantengono leggera la coscienza agli italiani. Tre pater ave e gloria o una battuta cialtrona di Sordi hanno la stessa funzione: consentono ai «peccatori» di perdonarsi o riconoscersi – e, fatti leggeri dalla penitenza o dalla risata, tornare alle loro cialtronerie e ai loro peccati. (14.II.03)

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La
ricerca: piccoli faustismi di batteria che si affrontano all’ultimo articolo su «Science». Il resto è inquinamento. (30.IV.03)

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Le gambucce accavallate, le scarpine firmate pendule, azzimati signorini, con i loro distinguo, ma in gara di sorrisi: due agiate vecchie zitelle che discutono se dare più soldi al giardiniere o al carpentiere – loro dicono: agricoltura o industria.
Le parole passe-partout «sviluppo» e «competitività» risuonano sulle loro boccucce sapute... Sono pensatori di dispensa, soppesano il presente – anzi il passato, perché il pavimento sta crollando, un vento violento scoperchia il tetto, le luci si spengono, ma loro vedono quelle scintillanti del salotto televisivo che li ospita... e vanno avanti con quieta esultanza. Qualche frasetta brillante rubacchiata dai libri come fosse propria, esibizione imparziale di dati di parte, alternanza di aggressione e consentimento esibita per l’avversario, una furba miscela di supponenza e finta modestia («per quel che so», «a quanto mi risulta», «potrei sbagliare», ecc.), e soprattutto, elusione, fumisterie: due della specie
politicus politicus, sottospecie oggidianus, ibrida, mutante, ubiqua, onniloquente, onnipresente, un OTM, Organismo Televisivamente Modificato. (al 9.IX.03)

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Se non siete già idioti, idiotizzatevi, come tutti: TV, calcio, canzonette, shopping, maldive... In casa di idioti non idiotizzarsi è da idioti. (23.XII.03)

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La poesia o è un
gadget isomero di quotidiani, in edizioni che puzzano di effimero come la carta e gli inchiostri dei medesimi, o è un bibelot d’antiquariato, una ingiallita reliquia amatoriale da scaffale o da armadietto: in ogni caso esiste solo se e quando risponde a regole di lucro. (... III.04)

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La letteratura la fanno i solitari, gli eslege, i naufraghi, i fuoriusciti – uno scrittore non può avere altra confraternita –; non la fanno i suonatori di tamburo della tribù, gli imbonitori, gli intrattenitori... Eco del tempo. Non i raccontatori ombelicali, gli autori di elegie anagrafiche: questi stucchevolmente terribili romanzetti puerili annualmente ammanniti a lettori puerili... (26.III.04)

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Quel che è perduto – quello di cui sentiamo la lancinante mancanza – non è l’umanità, ma la terrestrità: l’umanità è stata ed è sempre
troppo umana, ed è appunto la causa di questa soverchiante perdita di terrestrità. Al di là della prospettive ovvie di disastro e tracollo incombenti, quel che quotidianamente asserisce il trionfo catastrofico, o la superba disfatta, dell’umanità sono le sue voci: i fragori delle macchine e, specularmente, lo stridore delle chiacchiere. I primi coprono e soppiantano ogni altra voce terrestre, come le seconde coprono e soppiantano e storpiano e fanno infima la parola, il verbo.
La terra è invasa da idee-ordigni scagliati fuori da una mente macchinale: scavatrici, caterpillar, martelli pneumatici, arrotapavimenti, seghe elettriche, trapani, tagliaerbe: il lavoro umano non è che macchinale fragore, e il suo riposo chiacchiera macchinale... Impedito l’ascolto di sé, delle altre voci della terra, e del silenzio... La violenza della macchina annienta prima di tutto la voce, l’essenza sonora della terrestrità – distrugge il discorso il canto il silenzio, vanifica gridi e richiami, isola le teste in un rombo pneumatico e dalle bocche umane, macchinette sfrenate, non esce che rumore. (13.IV.04)

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A chi prende le protesi meccaniche per progresso, e pensa che la specie avanzi solo perché si muove più velocemente, a chi sogna palingenesi
ex machina: è vano, e sbagliato, e troppo facile, parlare di barbarie tecnologica, di stupidità e violenza compresse in congegni e microprocessori; riconosciamo piuttosto in questa umanità di tecnologia avanzata la solita immutabile barbara umanità che non avanza di un passo ma che sta conquistando una involontaria virtù: favorire la propria scomparsa. (al 14.IV.04)

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Voci fuori di scena. «Ora che gli abbiamo messo in mano questo nuovo giocattolo, l’ultima carabattola, quella che loro chiamano la scienza, con tutte le altre che gli abbiamo fatto trovare sotto l’albero – i nostri regalucci di natale – e che considerano le loro grandi scoperte e invenzioni, le opere del genio umano, ah ah, di cui si gloriano nel loro infantilismo... Quello che vola e quello che cade, che si muove e che si schianta, che turbina e che esplode, che sfavilla e che avvelena, ecc.: ora la nostra capacità di danno è centuplicata, mentre noi quasi non dobbiamo più agire, ah sì, non esistiamo più, si spiegheranno tutto scientificamente, cercheranno e si scaricheranno tra loro colpe e responsabilità, al modo d’oggi, in nome della ragione o delle ragioni, scannandosi, all’antica, come sempre». (al 28.VIII.05)

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Un tempo era l’albagia nobiliare a vietarsi il pensiero della morte (morendo si perde la faccia: si è riconosciuti pari agli altri mortali); oggi è la decenza borghese: parlare della morte è sconveniente, e non è conveniente (la scienza ci farà immortali – e intanto perché rovinarsi cene e viaggi?).
Perfino col sesso il borghese si è fatto sfrontato – con la morte, che ne ha ereditato lo sporco, si mantiene pudico; del resto per lei non c’è ancora un contraccettivo efficace. (28.VIII.05)

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Turismo: tra eretismo e meteorismo – una pandemia di turbolenze neurologiche e flatulenze gastroenteriche sparse su tutta la terra. Una dispepsia planetaria. Torme di sonnambuli che lasciano un luogo di cui non sanno niente per aggirarsi in un altro di cui sanno ancora meno.
Per questo onnivago trepestio e zappettamento, seminato da una indiscussa induzione, e nutrito con lo spostamento di quintali di concime fecale, spunta e cresce appunto l’Indotto, fiore dell’economia moderna. (16.VIII.06)

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Chierici ciechi e ipocriti, dopo aver partecipato allo scempio, per anni complici muti e attivi, – con prebende, privilegi –, ora che finalmente
vedono, o piuttosto fiutano, perché oppressi da tonnellate di merce-merda e di merda che non si sa più come smaltire – ah, ecco che ora gridano flebilmente, sospirano, rimpiangono (le loro poveramente dorate infanzie): oh che cosa abbiamo (hanno) fatto! (all’8.II.07)

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Giornata mondiale dell’acqua. Giornata mondiale della lentezza. Giornata mondiale della qualità. Giornata mondiale, ahinoi, della poesia...
Le giornate mondiali: annunciano allarme, catastrofe: si istituiscono per qualcosa che è in esaurimento o in estinzione, o è già estinto: la qualità, per esempio... Con un tale aggettivo, poi, «mondiale», così minacciosamente connesso alla guerra e al calcio, che è un’altra forma di guerra, civile... E come si celebra in Italia questa luminosa giornata della poesia? Officianti: attori di servizio e poeti al fischio. –
Vite soufflons la lampe... (21.III.07)
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Rimette d’osso

chi si vende al dettaglio e chi all’ingrosso
chi mette pancia e chi si spolpa all’osso

l’ossimoro ci investe, ci sta addosso,
su due gambe portiamo grasso e osso

è questo gente il magro paradosso:
produrre grasso ci ha ridotto all’osso

(30.IV.07)

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La poesia è un incantamento, un’esca – anche un’esca avvelenata... Qualcosa che cattura, accende, brucia: un veleno ardente, un farmaco per animi forti, mica un annacquato truffaldino, un brodino familiare o un frullato di lezio poetico al banco...
Come beffardamente si vanta Corbière, nella celebre dedica all’amico albergatore di Roscoff: «Noi siamo entrambi due begli avvelenatori. / A te gli stomachi, Le Gad, a me i cuori!».
Se quello strano estratto che si versa e coagula su carta non àltera e incanta e intossica, vuol dire che sulla carta non è colato che il nulla d’epoca, e questo la fa buona per il riciclo o il macero. (23.VI.07)


Diario postumo, I è uscito sulla rivista "Pagine", XVIII, 54, gennaio-marzo 2008.
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