venerdì 25 marzo 2011

Cartigli

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Per Frederick Rolfe. «Il suo intelletto era stanco, consumato da anni di speranze non soddisfatte, di solitudine, di lavoro senza premio».
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«La vita tra milioni di uomini dalla favella articolata era divenuta per lui un onnipresente orrore. Egli si chiedeva di frequente che cosa lo trattenesse dal gettarsi dalla finestra sulle pietre di Roma».
È da tali stanchezze abissali, da tale desiderio di precipizio e silenzio che possono levarsi slanci verticali di fervore edificatorio – ovvero opere di così inusuale splenetico splendore come l’Adriano VII.
Poiché è lo strapiombo che sostiene la vetta. Senza queste due postulazioni opposte, in cui picco e abisso si specchiano, c’è la piattezza dei ben accasati nel finito – le opere di pianura, trite e rassicuranti.
La stanchezza di Rose era la stanchezza di Rolfe. L’ascesa mirabolante di Rose al papato – un papato straordinario, fuori dalle regole, come il personaggio e la sua nomina – è l’ascesa mirabile di Rolfe dall’abisso di stanchezza e disgusto del mondo all’invenzione straordinaria che è il racconto di quel papato. Una immaginazione dantesca applicata al secolare; una chiaroveggente distribuzione di condanne – o un fantasticato regolamento di conti – e una drammatica redenzione personale senza compiacimento...
Il paradiso in terra per un prete mancato, o reietto, e assoluto zero mondano, non può essere che un’iperbole adeguata al suo orgoglio di scrittore: essere fatto papa... Aveva sulfuree credenziali, acquistate in anni di fallimento e esilio – e dell’inferno, nel precario paradiso del suo papato, ci dà appassionate impassibili notizie.

lunedì 14 marzo 2011

Cartigli

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L’opera a metà. Dove comincia, o dove finisce, la differenza tra un’opera incompiuta – lasciata a mezzo dal suo autore – e un’opera diruta – dimezzata dal tempo distruttore? Prendiamo a esempio la chiesa della Sagrada Familia e l’abbazia di San Galgano: due grandeggianti relitti che si incontrano a metà strada: la prima ha perduto il futuro, la seconda il passato...
Il monumentale o lo statuario, innalzandosi e sgretolandosi sotto i nostri occhi, illustrano con fisica efficacia il dilemma; ma un medesimo confronto si può fare in poesia, che so, tra le strofe che ci arrivano mutile di Alcmane o di Saffo e quelle sospese, a frammento, di Campana, o i versi abbozzati, abbandonati tra le carte di Govoni o Penna.
L’opera non compiuta è un’opera che pare sottrarsi alla distruzione: imitandola con la sua incompiutezza in qualche modo la elude, forse la irride.
Ma, si può obiettare, il tempo rovina anche le sue rovine, così come la sua rosura non si arresta di fronte all’interrotto – e tuttavia, a quel punto, tra i segni della mano mancata dell’autore e quelli della mano immanente del tempo, le tracce sono bell’e confuse e il distruttore resterà pur sempre un po’ giocato – previsto.
Comunque, anche escludendo un’intenzione assicurativa o ironica nell’autore (di solito le opere restano incompiute per ragioni più contingenti che concettuali), il risultato non cambia: la confluenza confonde le acque e l’interrogativo ci ondeggia su.