venerdì 29 gennaio 2010

Tristia & Trivia

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Quella verità è solo mia? Questo non la fa meno vera. Quante volte
la verità di uno è stata l’unica verità di un’epoca perduta nell’errore?

Lucio Persio



Bisogna essere dei begli originali per negare che quanto accade nella veglia non ha maggiore consistenza e durata di ciò che si vive nei sogni notturni. Giorni e notti e tutto quello che hanno contenuto non esistono più. Dove sono i gesti, i pensieri, gli abbracci, le lacrime – dissolti insieme alle parole che li hanno accompagnati, e la memoria di essi è frammentaria e fuggevole come quella dei sogni. Ma non ci si può neppure riscaldare al focherello teatrale del principe Sigismondo: con quale autorità posso affermare che la vita è sogno, se mi muovo in questo sogno? No, non ho da rivendicare che un sentimento di evanescenza, anche questo evanescente. (5.V.04)

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La piega decadente. I «tragici» eroi popolari della consumazione sono anche dei comici travet della cumulazione; rappresentando la consumazione e la consunzione, chiudono con consuntivi da magnati; inscenando la decadenza vivono nell’opulenza – ed eccoli, questi maudits à la mode, flettere le rotule rock sulle tombe dei grandi poeti maledetti (Rimbaud tra i più visitati), loro, mediocri canzonettisti benedetti da fama e mammona. (22.XI.04)

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La fine non esiste, come non esiste l’inizio. La fine come compimento è una convenzione romanzesca. Tutto ciò di cui si dà una fine è finzione: finire è fingere. Nella vita le cose non finiscono, si interrompono, e le storie si interrompono come si interrompe la vita. (30.IV.06)

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Dai corsi di scrittura – o creative writing – così superstiziosamente diffusi in America, e in lesta penetrazione, purtroppo, anche da noi, è uscita e esce tanta roba fasulla, senza necessità, di confezione: opere computeristiche, bene organizzate, scritte bene, con quello sbaffo di esibita creatività, di novità seriale e tempestiva, da scaffale di supermarket dei tempi – come se questo bastasse, come se questi prodotti, del tutto omologhi alle merci industriali, avessero nulla a che vedere con quella cosa fatta di nervi e sangue, di necessità e sapienza, quella cosa bisognosa di silenzio e solitudine, che è la letteratura. (17.X.08)

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Niente invecchia più rapidamente della novità. Non è un’idea nuova – dunque durerà. (al 18.X.08)

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Un «cambiamento epocale», o una «svolta epocale», i «poli di eccellenza», le «sfide del nuovo millennio»... Epocale, eccellenza, sfide: le bocche d’epoca si riempiono di vento, già spifferano dal teschio, così provando che nessun cambiamento è possibile per una specie vanitosa e vana, soggetta alla moda e alla morte. (18.X.08)

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La produzione di promesse, pubbliche e private, è così fiorente e remunerativa che bisognerebbe quotarle in Borsa. Ma sarebbero quelle non mantenute a dare verve al mercato, inondandolo di derivati e titoli-spazzatura. (al 19.X.08)

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La poesia non si vende. Gran verità: tutto si vende, tutti si vendono, la poesia no; la poesia non si vende. Quindi la poesia non si compra, non si acquista: la poesia si conquista. Fare poesia e pubblicare poesia è una forma di resistenza, richiede un altro impegno e dà altri piaceri. Come ogni forma di resistenza o di reiezione ha per sorte le barricate o le catacombe. Oggi una lettura di poesia è una riunione di adepti, una liturgia funeraria segreta, con una promessa di vita eterna – ma l’eternità è qui, e questa... (7.XI.08)

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Un’Africa per arricchiti d’occidente, è lo sfondo, ecologismo coloniale, o set per jet-set, e sette femmine della specie come tante, inalberate in pose ridicole di driadi o insetti stecco, o fragili parassiti depositati su possenti dorsi d’elefanti... così fermate e riprodotte in croste patinate, per un’idea corrente e corriva di bellezza. Il trionfo dell’umano: kitsch post-industriale, ovvero le autocelebrazioni della volgarità: il calendario pirelli, A. D. MMIX. (22.XI.08)

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Contro Valery. «Tutti i giudizi sugli uomini o sulle opere, che siano lodi o biasimi, sono giudizi da portinaie: giudizi di cervelli che stanno sulla soglia delle cose» (Cattivi pensieri, p. 131). Di questo giudizio al buio che si può dire? Si include? Certo che si include, al solito escludendosi: la sentenza rotola giù dal Sinai.

«Il microscopio rende irriconoscibile la cosa che mettiamo sul suo portaoggetti». Avere preso questa irriconoscibilità per profondità di conoscenza è l’ironica condanna di un pensiero che, asservito alla tirannia della scienza, non è altro, come in tutti gli asservimenti, che coazione e arroganza.

Valery non pensa diversamente dagli altri, pretesa in prestito dal Père Hardouin; pensa come e quel che gli altri penserebbero se pensassero. I suoi «cattivi pensieri» sono i pensieri dati o in sospeso di tutti – i loro «peggiori» pensieri –, e il metodo, e la giustificazione del metodo, non ne redimono la supponente ovvietà.

Mauvaises Pensées? Piuttosto rimuginazioni di un discolo compiaciuto delle sue bricconate del tutto innocue e in fondo bene accolte in famiglia...
Valery cerca il paradiso del pensiero nel confortevole (e inconsapevole) infernuccio dei suoi Cahiers...
Dell’inferno vero, questo agiato funzionario dello sfizio filosofico, non ci dà alcuna notizia.
Mauvais poète, mauvais penseur.

Ciò che pensiamo, ciò che enunciamo, prende da noi, inclina: brutte pieghe e virtù. Valery ha invece l’aria di credere nella objectivité delle sue formulazioni, poiché le considera poste in un preventivo riparo dall’io – un preambolo dell’io – che in lui tanto più esiste quanto è presunto neutralizzato... Il supposto non-ancora-io delle cinque del mattino, l’ora dei suoi annosi esercizi mentali... Perciò quelle formulazioni risultano così irritanti o deludenti o involontariamente comiche. Pur dandosi arie di altero e irridente indagatore dell’organico e del transitorio, egli si mostra come immune dalle sue scoperte, o alle strette strizza l’occhio e via, imperterrito.
Per esempio, stigmatizza la volgarità, ma la pratica volentieri – c’è in lui una ricorrente volgarità boulevardière, divertita e ammiccante, che è sua, è autentica, gli esce fuori, e la usa per dire che non sta sempre al miscroscopio. (14.XII.08 – 11.II.09)

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I grandi poeti sono come i gabbiani: attingono alle immondizie del mondo, si calano nel cuore livido delle cose, se ne nutrono e le trasformano in volo, nel loro alto aleggiare nell’aria e lento planare sulla terra.
I piccoli poeti invece razzolano, becchettano materiali di cortile – possono al più imbattersi in cicche e chewing-gum: tutto lì il loro brivido – per il resto, minime granaglie di casa... E il loro minimalismo di testa avvince le teste minime del tempo. (24.I.09)

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Sonetto a coda
d’asino

Tutto sfavilla e straluccica agli occhi
di chi vive al Paese dei Balocchi
e sembra oro, ma quando lo tocchi
stringi un pugno di mosche e tu che abbocchi
ti prepari allo scortico e agli scrocchi
mentre mandi richiami agli altri allocchi
che sono i più, così che non ha sbocchi
la storia dei lucignoli e pinocchi
malcresciuti con i loro barocchi
smisurati appetiti di baiocchi
di beni e cibi incartati coi fiocchi
luccicanti: oh incanti degli sciocchi!
tutti in riga coi loro paraocchi
carovane di asini e marmocchi

in festa e sordi ai funebri rintocchi...
(4.II.09)

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La forma più ingenua e nefasta di narcisismo in arte è l’amore di sé fino a morirne – ovvero: «Qualis artifex pereo!». Varietà neroniana.

La forma più ironica e onirica di narcisismo in arte è il narcisismo funebre: l’amore di sé esibito e disfatto, sull’orlo della tomba. Varietà donniana.

La forma più estrema e subdola di narcisismo in arte è la negazione di sé. Narciso che per raggiungersi si cancella. Varietà mallarmeana.

La forma più modesta e molesta di narcisismo in arte è quella di chi appena allunga la mano sull’acqua e fa qualche schizzo e increspatura. Varietà minimalista. (17.II.09)

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La gloria ferita. «Se dovessi morire – mi sono detto – non avrei lasciato nessuna opera immortale dietro di me. [...] se avessi avuto tempo avrei fatto in modo d’essere ricordato». Così scriveva Keats a Fanny Brawne nel 1819, l’anno in cui aveva composto le grandi odi, temendo di non meritare memoria e immortalità.
Eppure, un anno prima, fresca la ferita delle stroncature a Endymion, aveva affermato in una lettera al fratello George: «Penso che sarò tra i poeti inglesi dopo la mia morte».
Disperare e sapere: vuol dire conoscere la disparità tra il proprio giudizio (il risultato rispetto all’attesa, all’ambizione) e quello di chi legge (solo il risultato – in sé ammirevole) e vedere anche il risultato in sé ammirevole.
Ma il poeta può vivere in un perenne allarme e stremante altalenare dell’opinione di sé spartita tra umore e giudizio che si alternano in turni di guardia o si guardano in cagnesco. Poiché il silenzio e i veleni del mondo corrompono l’umore e possono arrivare a alterare il giudizio, fino a fargli dettare la buia epigrafe della sconfitta e del fallimento: «Qui giace uno il cui nome è scritto nell’acqua».
Quella fragile stele al Campo Cestio è un monumento anacronistico quanto vanamente ammonitorio alla Gloria Ferita. (14-15.III.09)

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Quando sentite qualcuno dire: «Non voglio demonizzare...» questo o quello, siate pur certi che qualche commercio con il demonio ce l’ha di sicuro, se non con quello che non vuole demonizzare, con qualcun altro che lo ha indemoniato. Insomma, è uno che capisce, è comprensivo, perché è della famiglia.



Tristia & Trivia è uscito sulla rivista «Pagine», XIX, 58, aprile-luglio 2009