venerdì 20 novembre 2009

Diario postumo III

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III

Chi acquista piena coscienza del negativo si troverà, per questo semplice fatto,automaticamente posto nell’unico punto da cui è possibile ingaggiare la lotta: nel limite.
Héctor A. Murena


Il sogno della scrittura. Soltanto sognare, senza scrivere. Sognare e pensare come se si stesse scrivendo, credendo di scrivere: un fumatore d’oppio che guardi passare le sue visioni. Con lo stesso distacco e incapacità di operare, o convinzione di avere già operato (l’azione del pensiero)... Il sogno della scrittura: il sogno di un sogno. Pure, scrivere richiede una attitudine e alcune operazioni che appartengono alla veglia; mentre il puro pensare pensieri, l’abbandono fantastico, le immaginazioni, ci spossessano e sottraggono alla realtà, come nel sogno notturno, non impongono nulla né portano a nulla se non al grande largo, al disteso o fluttuante mareggiare dell’illusione. (27.XII.88)

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Riuscire a non far nulla non facendo nulla: questa è la virtù assoluta. Di solito invece si finisce col far qualcosa per avere una cattiva ragione per non far nulla. E questa è la virtù del mondo – o suo vizio cardinale. (19.V.89)

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«Oggi la stupidità si vede di più», diceva Cocteau; «si vede di più perché ha il diritto di parola. Oggi si interroga la Stupidità in pubblico, ed essa concede interviste. Oggi la Stupidità pensa!».
Da allora la stupidità è diventata sempre più visibile – onnipresente: ha scritto libri, appare in televisione, siede in parlamento... E siamo ben oltre con certa portentosa stupidità plebiscitaria che si offre in «pacchetto», con le istruzioni per l’uso: ormai la stupidità riflette su se stessa. Oggi la Stupidità si pensa! (9.VIII.89)

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Arte della pausa. Ah vivere nelle pause, vivere di pause! Piacere di disorientare il tempo – costringerlo con la nostra elaborata immobilità ad anellarsi intorno a noi, che resteremo così – per un momento assoluto e illusorio – fuori della sua portata.
Dalle pause non si vorrebbe mai uscire, per non doverne riconoscere la natura ingannevole: erano soltanto il prima di un dopo che le nega. Ma intanto in quel nido sospeso il tempo predace sembrava non arrivare più. La vita eterna non sarebbe dunque altro che l’arte suprema di vivere nella pausa? (4.IX.93)

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Col Vecchio testamento gli ebrei hanno imposto il proprio genio poetico all’occidente; nel Nuovo testamento l’occidente ha creduto di trovare la sua rivalsa: l’indipendenza bellicosa di dirsi cristiano.
Gli ebrei possono sempre vantare l’ironica superiorità di avere conquistato popoli e nazioni a una fede che essi non hanno.
I gentili, a differenza degli ebrei, più cauti, sono stati impazienti di riconoscere il salvatore – rimanendo poi a pazientare, e a imperversare, sotto la croce, per duemila anni e ancora aspettando la salvezza promessa.
La pena finale per la cristianità sarà dover riconoscere la ragione di Israele – a quel punto, perdendo tutto: fede e speranza; la carità è già estinta. (I.XII.95)

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Mito, destino, maschera... Quanto trucco, quanti coturni per le nostre povere storie – palpiti di corpi precari. Conforti della carne, qualche sparsa felicità, molto dolore – e la scomparsa, la perdita definitiva: nulla, zero.
La luce vera viva è quella degli abbracci, degli sguardi; l’altra è la luce morta degli smalti che ci illude con la lusinga della durata, della immortalità: eppure è viva e vera per noi solo finché è viva l’altra luce, quella mortale... (all’8.II.96)

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Noi abbiamo dimenticato cos’è poesia – e come colpisca la sua rivelazione capitale; cosa hanno significato i rari versi di Leopardi, i Canti orfici, Sbarbaro col suo Pianissimo. Guidati da un gusto alterato e stanco, ci accontentiamo di manufatti inerti, di agitazioni artefatte: prudenze cartesiane e oracolarità a tavolino, freddure puberali e studiate brutalità; in generale, pensieri ordinari e linguaggi arbitrari... Della poesia non resta che un ormai troppo familiare fantasma che ci tempesta e tedia, senza darci più neanche un brivido, con le sue apparizioni innecessarie incessanti... (8.V.96)

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Sono le sofferenze degli offesi, dei feriti, degli esclusi, che sconquassano il mondo: la loro mente è sismica; la loro anima, una polveriera.
Ognuno di loro può dire: «State attenti, produco disastri». (12.IX.96)

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La sfortuna sono gli altri. Quanto più ognuno non fa la sua parte, tradisce compiti e impegni, tanto più cresce e si fortifica la sfortuna. Sono le azioni mancate, le deliberate omissioni, la negligenza o l’indifferenza o la stoltezza a creare questo espiatorio e tragico spettro: lo sfortunato. E, del resto, che tenebroso vermicolio dietro lo spauracchio Sfortuna: inetti, invidiosi, intriganti... e fortunati. (14.IX.98)

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Stoà. Ci sono suicidi che sono un complimento alla vita – un complimento che la vita non merita: sono i suicidi a caldo, quelli dell’ardore giovanile; ma ci sono anche i suicidi dell’impazienza senile: sono i suicidi a freddo – una forma di congedo anticipato. (23.XII.05)

La morte, male congenito – la morte in noi: il suicida è illuminato a giorno, o a notte, da questa verità imperdonabile, e da essa non può più prescindere.
Per lui la scelta non si pone tra la vita e la morte, bensì tra una morte tempestiva e volontaria e una morte rinviata e occasionale – biologica, accidentale – in un certo senso, una morte delegata, all’età, alla malattia, al caso... La scelta del suicida è curarsi da solo. (al 5.VIII.06)

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La maledizione di Tutankamon: è tutta sua. Un fiero egiziano antico, giovane re guerriero morto in gloria, che si ritrova portato in sala raggi, sottoposto all’anatomia di futili illazioni medico-turistiche sul suo decesso plurimillenario; dalla vita breve di faraone alla morte secolare in vetrina che lo aspetta, la sua vita di mummia da esposizione – davanti a milioni di corpi flaccidi e flatulenti, sonnambuli che nel loro passaggio dal niente al niente, una mattina poseranno i loro occhi lubrichi sul suo viso di rimpastata polvere, portatori nella valle di Luxor di shit & money. Per gli altri faraoni l’attenzione studiosa, sommessa degli storici, per lui quella strillata, volgare dei settimanali: una star del Mercato, un sarcofago d’eccellenza, una tomba a cinque stelle, ecc. ecc., e mai che Anubi li evisceri quanti sono. (al 5.XI.07)

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Che grave errore, che cecità, da parte di chierici e copisti medievali, aver trascurato le opere dei menestrelli per quelle di Dante, Cavalcanti, ecc. Oggi avremmo la tradizione giusta per gli intelletti contemporanei: dai testi dei minstrels a quelli dei cantautori, che gli illuminati editori italiani invece non si stancano di stampare in rigorose edizioni curate da specialisti finissimi. Quanto agli accademici, così antiveggenti e arditi, avrebbero dalla loro un passato e un crisma per sostenere, senza esporsi all’ignominia e al ridicolo, le ragioni delle canzonette contro la poesia. Ma che dico: avremmo altro in verità che la «poesia» delle canzonette? (al 16.II.08)

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Ne girano di sogni, e soldi a ruota, in carta e celluloide! Come farebbero i perbene senza il male di quella malavita che li fa fantasticare e oltretutto guadagnare? Che farebbero senza mafie e camorre; dove troverebbero il piacere di rappresentare e vedere quel che loro possono solo immaginare: gli altri, i reprobi, che uccidono, lucrano, si divertono, si abbuffano e fottono sfrenatamente – fintanto che riescono a farla franca, a non finire in galera o morti ammazzati...
Ma a chi sta lì seduto a succhiare emozioni da un libro o da un film in uno sfolgorio di sangue sudore e sperma, non può sfuggire che anche i suoi più modesti e domestici piaceri d’ordinanza dureranno finché anche lui riuscirà a farla franca, e c’è chi ci riesce, pur timorato, appena fino a venti, altri a quaranta, a sessanta, al più oggi fino a ottanta anni – ma le statistiche benedicono pure tanti vegliardi malvissuti, o meglio vissuti...
E dunque quante segrete invidie e oscuri tremiti in quella atarassia di spettatore conquistata, nella sicurezza del salotto o della sala cinematografica, con la sua vita «normale» che gli risparmierà (forse) sangue e morte violenta, mentre va verso la sua, chissà come e quando, morte tranquilla. (al 24.II.08)

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– Siamo esseri umani...
– E ce la mettete tutta per rappresentarvi al peggio, o magari vi riesce senza sforzo, e intanto il meglio non vi risparmiate per cancellarlo... Fate fuori i migliori, per esempio, e non solo in vita. Guarda le infamie della fama e della gloria: i mercatini e le volgarità, il commercio degli aneddoti e delle reliquie, le falsità sciocche, le banalizzazioni... Quotidiani, rotocalchi, cataloghi, comunicati stampa...: è lì che operate al meglio per il peggio, è lì che siete inarrestabili. (29.II.08)

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Prodezze produttive. Questa è una società cui il cancro è congeniale, congenere – nasce e cresce con lei, con la sua produzione, alimentare, chimica, minerale, siderurgica, elettronica, elettromagnetica, ecc. Producendolo, lo usa. I disastri umani e sociali che il cancro adduce dovrebbero stare sotto la voce spesa, rappresentare il passivo del bilancio, e invece, op là, salto mortale dell’economia, eccoli rientrare nel prodotto lordo, producendo a loro volta reddito, da industria – farmaceutica, ospedaliera – e da indotto, che completano e rafforzano questo felice ciclo produttivo producendo ancora cancro, con i loro fumi, liquami e scorie... nonché tanta letteratura scientifica o eroica e patetica sul tema. (1.III.08)

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Tra il volere e il potere c’è di mezzo il mestiere.
Tra il bello e il vero c’è di mezzo il mistero. (26.III.08)

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Paura e speranza.

But we, poor slaves to Hope and Fear,
Are never of our joys secure

Ma noi, poveri schiavi di Speranza e Paura,
non siamo mai sicuri delle nostre gioie

Rochester, The Fall – A Song


[...] behind, lurk Fear
And Hope, twin Destinies; who ever weave
Their shadows, o’er the chasm, sightless and drear.

[...] dietro in agguato
Paura e Speranza, sorti gemelle, sempre a tessere
le loro ombre sul cupo e cieco baratro.

Shelley, Sonnet


O paura e speranza d’occidente!
La sua regola d’oro, i sacri pil-
astri – giaculatoria demente e
scongiuro d’ogni giorno: Petrolio e Pil:
lordura fossile e lordura vivente.

Persio, Quintana
(... IV.08)

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Riferisce il cronista, colpito forse dalla vertigine di tanta oscura consapevolezza, di un poeta che, dal palco di una basilica romana, si è dimessamente proclamato «l’interprete del silenzio degli dei».
Il loro silenzio, è vero, si leva clamoroso dalle sue paginette: Apollo certo non gli ha mai parlato, e nemmeno Dioniso. Crono, che pure qualche progetto su di lui ce l’ha, e non lontano, per ora non apre bocca.
Con un fremito o un cachinno, chissà, avrà consentito la platea a quella impudente modestia.
Ma è questa verità rivelata, o segreto di Pulcinella, che quel sottile esegeta di sé ha inteso consegnare ai presenti? O non ha voluto invece, con una scaltra antifrasi, lusingarli e dichiararsi, quale di fatto è, interprete delle chiacchiere degli umani? (20.VI.08)


Diario postumo III è uscito sulla rivista «Pagine», XVIII, 56, luglio-novembre 2008.

domenica 1 novembre 2009

Intermezzo. Tre poesie di Sponde

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Non vedi quella freccia che si spinge
partita dalla mano dritta nell’aria
e l’insegue? Sale, sale, cede: ma di colpo
ahimè ricade, cade, perde il suo impeto.
È la solfa dei giorni qui: l’arroganza
dei mostri di terra, succhiata col latte,
che sfiora ecco dei monti la più alta
vetta e sulle rocce in strapiombi s’abbatte.
I nostri giorni: salito a quell’altezza
quando sarai lì, fermo in quel punto
insuperabile, la discesa ti aspetta.
La freccia ha piume, l’aria che va inseguendo
è campo del turbine: avanti, impara
che la tua vita è piuma e il mondo, vento.


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Chi sono mai, chi sono questi cuori
idolatri, adoratori di successo
ai piedi del mondo: valletti, signori:
anime d’ebano e facce di gesso?
Queste maschere a schiere false e matte
che lisciano con gusto non so che venditori
di fumo di corte, questi trionfatori
su un cielo che non possono combattere?
E quei bordeggiatori che lasciano il porto,
devoti alla vita, infedeli alla morte,
per stella il loro bene, la fantasia per vento?
È il mare in cui remo e temerei di perire
se non sapessi che la vita è soltanto
la lanterna che mi guida al morire.


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Ma se il mio fiacco corpo che scorre via
come acqua – e dura più d’uno più forte –
già s’accosta al varco della morte
e male su male alla tomba mi avvia,
perché mi oppongo al vento che tempesta
la sabbia dei miei giorni, inarrestabile?
Non è meglio svegliar l’anima semmai il turbine
nel sonno insieme al corpo la disperda?
Che il corpo dorma, mia anima, tu vigila
vigila, in guardia dai terrori, attenta
che addormentata il Ladro non ti sorprenda:
l’attimo del suo arrivo, anima, è incerto:
ma a noi basta che questo autore di vita
nasconda il tempo, e non il suo progetto.



Le poesie sono tratte da Jean de Sponde, Versi d’amore e di morte, traduzione di Gianfranco Palmery, Il Labirinto, Roma 2007

http://www.labirintolibri.com/sponde/versidamoreedimorte.html